Con il nuovo Dpcm del 24 ottobre 2020 – in vigore dal 26 ottobre fino al 24 novembre 2020 – sono state adottate nuove misure restrittive per arginare la diffusione del Covid-19.
Tra le misure più drastiche la chiusura di centri sportivi, piscine, palestre, centri termali. Nonostante tutti i protocolli e controlli adottati dai gestori di queste attività per la sanificazione e contrasto alla diffusione del virus all’interno dei propri spazi, a nulla sembrerebbero essere serviti.
Tra gli appelli il primo a partire è stato proprio quello da parte dell’Anif, Associazione Nazionale Impianti Sport e Fitness, pubblicando una lettera di disguido a Conte: “Salviamo i centri sportivi! Nonostante sia stato dimostrato che sono a Covid minore dell’uno per mille, nonostante i controlli dei Nas abbiano dimostrato che sono osservanti dei protocolli anti Covid, nonostante rappresentino da sempre una parte importante di cittadini con un sano stile di vita e quindi attentissimi a non prendere o trasmettere il virus, si parla nuovamente di chiusura! Chiediamo perciò a Conte di valutare bene la situazione, perché chiudere significa anche distruggere lo sport e mettere in estrema difficolta 1.000.000 di lavoratori, 100.000 centri sportivi e 20.000.000 praticanti”.
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È proprio questo il focus: il fallimento di questo settore. Chiudere un mese non porta solo ad un calo del fatturato di queste società, ma anche del loro indotto: si pensi ai collaboratori, fornitori o società terze che operano come intermediari fornendo servizi ai loro clienti.
Forse i dati rilevati dal Report del 15 giugno 2020 dell’Istat Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria, non sono stati appresi, bensì tralasciati.
Era infatti stato rilevato che nel periodo tra marzo ed aprile 2020 c’era stato “oltre il 50% di fatturato in meno per 4 imprese su 10” -rispetto allo stesso bimestre 2019 -, dove quote particolarmente elevate di imprese chiuse durante il lockdown si riscontravano proprio nelle attività sportive (87,2%). Risultava quindi un calo del fatturato del 58,2%.
Sempre l’Istat nel Report pubblicato a dicembre 2019 aveva rilevato che nel 2018 il 64,9% della popolazione di 6 anni e più, considerando i 12 mesi precedenti, avevano svolto nel tempo libero attività sportive.
Nell’indagine invece di Sport e Salute relativa al periodo di emergenza, la quota di italiani che afferma di essersi mantenuta attiva nel corso del lockdown era molto alta, in particolar modo il 58% degli intervistati aveva dichiarato di essersi mantenuto attivo perché fa bene alla salute fisica, mentre il 63% aveva dichiarato di averlo fatto per il benessere dalla propria salute mentale.
Tutti questi dati dovrebbero essere rapportati ad oggi, nel nuovo lockdown inflitto esclusivamente a questo settore – oltre quello della ristorazione -, in un periodo in cui tornano a salire i livelli di contagi su tutto il territorio nazionale, e dunque sul timore da parte degli italiani di contrarre il virus.
In un’indagine condotta nel periodo di tempo tra il 17 e il 31 marzo – in piena bufera Covid – l’IFO (l’International Fitness Observatory) stimava una perdita, in un lasso di tempo di 5 mesi nel medesimo settore, di oltre un miliardo di euro. Non solo: i posti a rischio sarebbero stati 200 mila. Al quarto mese di stop, si evidenzia nel report, «l’82% dei club non avrebbe sufficienti risorse per poter continuare la propria attività».
Ora in Italia, come attestato dagli ultimi dati sviluppati da Unioncamere e InfoCamere, il giro d’affari stimato per le attività sportive non agonistiche riguardanti il fitness è di circa 10 miliardi l’anno. Per quanto riguarda lo Sport Industry secondo i dati del Cerved, prima di febbraio, la produzione di attrezzature ed abbigliamento sportivo aveva raggiunto un fatturato annuo di 13 miliardi di euro,mentre le scuole calcio tra i 120 e i 150 milioni.
Se quindi tutti questi dati dovessero essere riconfermati anche per l’ultimo trimestre 2020, forse gli indennizzi espressi da Conte nella conferenza stampa di presentazione del nuovo Dpcm, quali Cassa integrazione, contributi a fondo perduto, reddito d’emergenza, credito d’imposta sugli affitti, non riuscirebbero ad acuire i costi di questo settore e della sua filiera.