Con la risposta a interpello 596 del 16 settembre 2021, l’Agenzia delle entrate ribadisce che nelle ipotesi di smart-working rileva esclusivamente il luogo effettivo nel quale il lavoro viene prestato, anche laddove ciò costituisca una delle condizioni indispensabili per poter applicare una norma tributaria speciale.
Di conseguenza, il regime speciale impatriati, se ricorrono le altre condizioni, si applica anche nel caso in cui il datore di lavoro sia un soggetto straniero.
Nel caso di specie, peraltro, la risposta fornita (forse un po’ troppo sbrigativamente), comporta rilevanti problemi di ordine pratico, tenuto in debita considerazione quanto prescritto dalla norma convenzionale in materia di lavoro subordinato.
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Il caso che ci occupa afferisce a un cittadino italiano che ha lasciato il nostro Paese nel 2013, ha avuto una figlia nel 2017 e si è iscritto all’AIRE a decorrere dal 2019.
Oggi, la società statunitense per la quale lavora gli ha concesso di prestare l’attività a distanza dall’Italia in modalità smart-working, per un periodo di almeno due anni.
A questo punto l’istante prevede di trasferirsi nuovamente in patria, con tutta la famiglia, a partire dal corrente anno 2021.
L’interpello è presentato al fine di accertare se è possibile beneficiare (sempre dal 2021) del regime fiscale di favore introdotto per attrarre dall’estero i lavoratori (impatriati). Non solo, considerata la presenza di una minore, l’istante ritiene altresì di poter usufruire del prolungamento per altri cinque anni (oltre ai cinque ordinari), dell’anzidetto regime speciale di favore.
La norma di riferimento è l'articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147. Tale disposizione è stata oggetto di modifiche normative, operate dall'articolo 5 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (convertito dalla legge 28 giugno 2019, n. 58), in vigore dal 1° maggio 2019, che trovano applicazione, ai sensi del comma 2 del citato articolo 5 del decreto legge n. 34 del 2019, come modificato dall'articolo 13-ter, comma 1, del decreto legge 26 ottobre2019, n. 124, convertito dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157.
Il citato regime speciale, in sostanza, consente ai soggetti che a decorrere dal 30 aprile 2019 trasferiscono la residenza in Italia, di beneficiare di un’esenzione fino al 70% dell’imponibile fiscale dei loro redditi prodotti in patria.
Per fruire del trattamento di favore, il lavoratore deve possedere i seguenti requisiti:
Destinatari del regime speciale sono tutti i cittadini dell'Unione europea o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale; purché:
L'agevolazione è fruibile per un quinquennio a decorrere dal periodo di imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in Italia e per i quattro periodi di imposta successivi.
Quanto a eventuali approfondimenti sull’applicazione pratica del regime speciale in argomento, l’Agenzia si limita a richiamare la sua precedente circolare 33/E – 2020. Nello specifico, il paragrafo 7.5 della menzionata circolare, precisa che la normativa non richiede che l'attività sia svolta per un'impresa operante sul territorio dello Stato.
Pertanto, possono accedere all'agevolazione:
Inoltre, la presenza di un figlio minorenne permette all'Istante di fruire dell'agevolazione per ulteriori cinque periodi d'imposta, con tassazione del reddito agevolato nella misura ridotta del 50%.
In conclusione, se quanto indicato nell’istanza è in concreto esatto, nonostante l’indubbia atipicità della fattispecie in parola, i requisiti richiesti per l’applicazione della normativa di favore sono rispettati e nulla osta a che la stessa venga regolarmente applicata dall’istante.
La risposta fornita dall’Agenzia pare incontestabile se considerata la norma di legge, tenuto conto unicamente del tenore letterale della stessa. Peraltro, non si può sottacere che, avuto riguardo alle tante situazioni anomale che si verificano nella pratica in occasione di smart-working transnazionale, sarebbe quanto mai auspicabile un intervento legislativo ad hoc.
Analizziamo da un punto di vista operativo le conseguenze pratiche che derivano dall’applicazione dei principi indicati dall’Agenzia delle entrate, tralasciando – in quanto non pertinenti in questa sede – le altre innegabili connesse problematiche in ottica previdenziale, assicurativa e giuslavorista.
Il soggetto in questione è fiscalmente residente in Italia e presta attività alle dipendenze di un datore di lavoro americano. La situazione illustrata, peraltro, di per sé non configura una stabile organizzazione italiana di società estera. Di conseguenza, si rientra nella previsione di cui al primo periodo del paragrafo 1 dell’articolo 15 della convenzione contro le doppie imposizioni Italia / Stati Uniti:
Salve le disposizioni degli articoli 16 (Compensi e gettoni di presenza), 18 (Pensioni, etc.), 19 (Funzioni pubbliche), 20 (Professori ed insegnanti) e 21 (Studenti ed apprendisti), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato.
Conclusione: il dipendente in questione è soggetto alla tassazione esclusiva in Italia.
Sarà, dunque, suo onere:
Dal suo canto, il datore di lavoro statunitense, il quale in alcun caso può assumere la veste di sostituto d’imposta italiano (salvo non abbia appunto in Italia una stabile organizzazione), non dovrà effettuare alcuna ritenuta sugli stipendi corrisposti al dipendente residente in Italia.
Ora, la domanda da porsi è la seguente:
Siamo assolutamente sicuri che il datore di lavoro straniero aderirà alla richiesta del suo dipendente in “smart-working italiano”?
La convenzione, ovviamente, non è stata pensata presupponendo l’istituto dello smart-working. Pertanto, indipendentemente da quanto illustrato a opera dell’Agenzia delle entrate per ciò che concerne la normativa italiana, occorre previamente verificare cosa prevede la legge statunitense in questi casi atipici di prestazione dell’attività lavorativa all’estero.
Laddove, cosa altamente probabile, il datore di lavoro in argomento ritenga di dover applicare comunque le ritenute federali, il dipendente andrebbe incontro a una duplice imposizione, senza poter sfruttare in Italia nemmeno il metodo del credito per le imposte versate nell’altro Paese contraente, posto che la norma convenzionale prevede la tassazione esclusiva italiana.
Per contro, non è neppure del tutto escluso il rischio di una doppia residenza, cosa che comporterebbe uno stravolgimento di tutta la situazione.
In base alla disciplina federale, ai fini delle imposte sul reddito, una persona fisica si considera fiscalmente residente negli Stati Uniti se soddisfa una delle seguenti condizioni:
L'unica eccezione al "cumulative presence test" è dimostrare che il soggetto economico ha il suo principale centro di attività-affari non negli Stati Uniti e che i propri legami familiari e sociali sono rilevanti in un altro Paese e non negli Stati Uniti.
Altro elemento sicuramente analizzato dall’INR sarà, poi, l’eventuale connesso status di “Specified US person” ai fini della nota normativa FATCA.
Infine, occorre altresì osservare l’indubbia circostanza che il soggetto in questione, seppure fisicamente presente in Italia, percepisca un reddito di fonte americana. Dunque, di regola sarebbe necessario dichiarare (anche?) negli Stati Uniti tali redditi. Pertanto, la corretta individuazione della residenza fiscale secondo la legge USA diventa un fattore indispensabile in ordine all’applicazione della norma convenzionale di riferimento.
Orbene, premesso che non è dato di conoscere tutte quelle informazioni indispensabili al fine di circoscrivere correttamente la situazione nel caso indicato, appare comunque evidente che, in ottica USA, la questione è ben lungi dall’essere definita così sbrigativamente come viceversa indicato dall’Agenzia delle entrate per l’Italia.
Il punto è che, oltre al resto, la pandemia ha amplificato in modo esponenziale l’utilizzazione dello smart-working: sembra che, improvvisamente, tutto il mondo si sia accorto dell’esistenza di questo istituto e vi faccia ricorso in maniera talmente frequente, ordinaria e (forse anche) spropositata, che risulta impensabile tentare di regolamentarne le varie differenti ipotesi senza un preventivo e – a questo punto – imprescindibile intervento del legislatore; non solo a livello nazionale, ma vieppiù sovranazionale.
Fino a quando dunque questo non avverrà, a parere di chi scrive, sarà inevitabilmente complesso (oltre che rischioso) cercare di definire le tante e disparate ipotesi pratiche che ci troveremo a dover affrontare, specialmente nelle fattispecie di ordine internazionale, per provare a disciplinarne effetti e comportamenti in modo sostanzialmente univoco. Altro che certezza del diritto…