In questa stagione, soprattutto nelle zone ad elevata concentrazione di locali delle località di villeggiatura, è notevole il disturbo sotto le finestre dei condomini, sempre più esasperati. È inevitabile, quindi, la contrapposizione tra coloro che sono “in deficit di ore di sonno” e coloro che, invece, esercitano un’attività commerciale e non riescono a controllare i turisti festanti.
A fronte di tali situazioni, molto spesso vengono effettuati, dietro segnalazione dei residenti, numerosi interventi di varie forze dell'ordine (Polizia locale, Carabinieri, Questura) e accertamenti da parte dell'ARPA presso le abitazioni di uno o più residenti, da cui emergono immissioni superiori ai limiti di legge.
Il problema, che molto spesso, è difficile comprendere e la responsabilità nei confronti dei condomini debba imputarsi ai gestori dei locali o al Comune.
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Il Comune, chiamato in causa dai condomini per porre fine alla movida intollerabile, molto spesso lamenta il proprio difetto di legittimazione passiva nella vertenza giudiziaria, sostenendo che il principale elemento di disturbo proviene dagli esercizi commerciali e dal comportamento abnorme degli avventori e di coloro che, in genere, popolano le strade della movida. Tuttavia, negli spazi esterni ai locali, in assenza di utilizzo e, quindi, di autorizzazione al loro sfruttamento da parte dei titolari degli esercizi commerciali, incombe sull’amministrazione comunale, proprietaria dell’area, agire per eliminare le immissioni intollerabili. Pertanto, al gestore non può essere imposto di vigilare su un uso degli spazi esterni autonomamente fatto dagli avventori. È, invece, l’ente territoriale che deve assumere misure incisive, come la revoca della licenza e la chiusura dei locali recidivi, la restrizione degli orari di apertura e l’adozione di un piano di risanamento acustico.
L’azione giudiziale dei condòmini per risolvere le situazioni sopra descritte è indubbiamente orientata a far conseguire agli attori la tutela, piena, del diritto fondamentale alla salute che si assume leso da immissioni acustiche intollerabili, di cui si chiede la cessazione tramite idonee cautele che il Comune (competente a gestire le aree cittadine da cui le immissioni stesse promanano) deve adottare.
Pertanto, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, atteso che l’inosservanza da parte dell’ente territoriale delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario, non solo per conseguire la condanna del Comune al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere: in altre parole, le richieste dei condomini non investono scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un’attività soggetta al principio del neminem laedere.
Il giudice ordinario, per realizzare il contenimento della rumorosità di un ambiente circoscritto, può ordinare l’adozione di tutte le misure adeguate, condannando l’ente territoriale ad un positivo “facere”, come la chiusura degli esercizi commerciali che non rispettano le prescrizioni, l’eliminazione dei dehors, la drastica riduzione degli orari di chiusura ecc.; tuttavia il giudice non può adottare provvedimenti quando si tratta di agire sulla vita notturna del vasto quartiere di una metropoli: in altre parole, non può decidere l’assetto di un intero territorio, con effetti su tutta la città.
In tal caso allora alla responsabilità del Comune consegue, quindi, il solo risarcimento dei danni.
I presupposti per affermare la responsabilità aquiliana del Comune, ex art. 2043 c.c., sono i seguenti:
A fronte di tale scenario il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e al diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto a uniformarsi (Cass. civ., Sez. Un., 12/10/2020, n. 21993).