Uno degli aspetti che spesso non viene adeguatamente valutato dai datori di lavoro allorché decidano di attivare dei distacchi transnazionali, è quello legato alle potenziali conseguenze di carattere fiscale in capo ai dipendenti distaccati. È pur vero che, formalmente, trattasi di situazioni personali proprie dei singoli lavoratori. Peraltro, è altrettanto indubbio che appare doveroso fornire sempre una completa informativa ai propri dipendenti in sede di accordo, tenuto conto delle ripercussioni negative, non solo in relazione alla retribuzione effettivamente percepita, ma anche e soprattutto in termini di incidenza sul normale proseguo del rapporto fiduciario datore/dipendente.
Oltre a ciò, vi potrebbero essere pure dei rischi di carattere civilistico/contrattuale, laddove venisse eccepito un vizio del consenso, per aver sottaciuto, in sede di accordo, che il corrispettivo indicato era da intendersi al lordo anche di oneri fiscali estranei a quelli stabiliti dalla normativa domestica. D’altronde, il lavoratore interessato al distacco è allettato dalla prospettiva di ricevere un salario ben superiore rispetto a quello ordinariamente percepito (motivo per il quale si convince ad accettare la novazione contrattuale), senza considerare che, a seconda dei casi, in realtà il corrispettivo negoziato potrebbe venire in parte eroso da ulteriori obblighi impositivi non inizialmente conosciuti e, dunque, preventivati.
In taluni casi, poi, a questioni di carattere puramente fiscale, se ne potrebbero aggiungere altre di tipo contributivo, assicurativo e previdenziale: vale a dire, da un lato, maggiori trattenute sullo stipendio; dall’altro, minori coperture e vantaggi pensionistici in confronto a quelli a cui si avrebbe diritto in ipotesi di ordinario svolgimento del rapporto di lavoro in patria. A dire il vero, con espresso riguardo alle potenziali problematiche in materia previdenziale, le eventuali disparità risultano sostanzialmente azzerate nelle fattispecie concernenti i distacchi transnazionali intra-UE, ratificati in forza di altri accordi di carattere generale anche in Svizzera e nei Paesi dello Spazio Economico Europeo – SEE (Norvegia, Islanda e Liechtenstein). Intendiamo riferirci nello specifico ai regolamenti CE 883/2004 e 987-988/2009 (susseguenti al precedente regolamento CEE 1408/71), emanati per assicurare il coordinamento dei differenti sistemi di sicurezza sociale, in applicazione degli articoli 48 e 352 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) miranti a eliminare gli ostacoli per garantire la libera circolazione delle persone fra gli Stati membri.
Per contro, le situazioni variano in maniera assai rilevante laddove i distacchi interessino nazioni che non appartengono all’area UE “allargata” alla Svizzera e ai Paesi SEE. Sarà dunque buona norma verificare sempre, prima, relativamente ai Paesi concernenti il distacco:
Giova ricordare che la retribuzione dei lavoratori in distacco, a parità di mansioni e orario di lavoro svolto, è necessariamente superiore rispetto a quella ordinariamente percepita in patria. Innanzitutto, va di fatto assicurata una retribuzione minima che in nessun caso può essere inferiore rispetto a quella maggiore risultante dal confronto tra:
Inoltre, nel contratto tra datore di lavoro distaccante e dipendente distaccato, andrà ben precisata la retribuzione complessiva garantita nel periodo in distacco, tenuto anche conto dei costi per:
Questa lunga premessa ci consente di analizzare nel dettaglio talune fattispecie frequenti nella pratica e comprendere meglio quanto prima paventato.
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Sul punto, occorre innanzitutto riprendere le disposizioni di carattere fiscale stabilite nel modello convenzionale OCSE per quello che riguarda i redditi di lavoro dipendente, che in genere ritroviamo all’art. 15. Nella stragrande maggioranza dei casi, la norma di base è la seguente:
Le disposizioni sancite dal paragrafo 2, evidentemente, non rilevano agli effetti della problematica qui evidenziata, posto che, in ipotesi, si avrebbe una tassazione esclusiva nel Paese di invio dell’eventuale dipendente in distacco e, dunque, ciò non potrebbe in alcun caso comportare per l’anzidetto dipendente delle “brutte sorprese” fiscali, ulteriori rispetto a quanto normalmente dovuto.
Viceversa, il problema si pone – eccome – avuto riguardo a quando disciplinato dal paragrafo 1.
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Ma prima di passare a degli esempi pratici, è altresì opportuno ricordare che i distacchi hanno necessariamente un limite di durata massima che non può essere in alcun caso superato. Di base, la nostra legge interna impone l’obbligo del requisito della temporaneità ai fini della validità del distacco. Pur non stabilendo a priori una durata massima prefissata, in sostanza la norma dispone che il distacco perdura solo fino a che è giustificato dallo specifico interesse del datore di lavoro distaccante. Trattando in questa sede di distacchi transnazionali, peraltro detta norma va coordinata con quelle eventualmente di fonte gerarchica superiore all’uopo previste. Per esempio, la legge comunitaria – lo sappiamo – prevale su quella nazionale. La direttiva 2018/957/UE (ratificata in Italia dal D.lgs. 122/2020) prescrive una durata massima di dodici mesi, salvo proroga motivata di altri sei. Anche gli accordi internazionali prevalgono sulla legge domestica. A tal proposito, l’ultimo accordo “post-brexit” stabilisce una durata massima complessiva di ventiquattro mesi. Possiamo, quindi, concludere che:
Questi limiti di durata sono particolarmente importanti (si ricorda che la malattia o le ferie del dipendente distaccato non interrompono la durata del distacco), posto che, nel caso in cui il contratto di distacco dovesse superarli, si avrebbero immediate ripercussioni sullo status di straniero “irregolare” del dipendente distaccato e sulla sua inclusione nella forza lavoro dell’azienda distaccataria.
Tralasciando tali questioni e ritornando all’oggetto che qui ci occupa, andiamo ora a vedere degli esempi pratici.
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1) L’azienda Italia distacca il suo dipendente Verdi presso la società Spagna per svolgere in loco determinate mansioni; il distacco durerà un anno; Verdi manterrà comunque la propria residenza italiana.
La norma convenzionale è suddivisa in due parti:
Nel nostro caso, ricadendo in tale seconda parte della norma convenzionale, per Verdi, l’anno successivo, non sarà più sufficiente ricevere la CU italiana ed eventualmente presentare il modello 730 o il modello redditi persone fisiche, poiché questi adempimenti assolvono a quanto prescritto – solamente – dalla normativa tributaria italiana. Però, Verdi avrà ulteriori obblighi pure nei confronti del Fisco spagnolo, cui dovrà preoccuparsi di adempiere in terra iberica, dove viene utilizzato il Worldwide principle taxation (come, del resto, un po’ in tutto il mondo).
Orbene, è chiaro che Verdi dovrà innanzitutto sostenere i costi necessari per affidarsi a un professionista locale, onde essere certo di espletare compiutamente quanto richiesto dalla legge spagnola. In secondo luogo, non è affatto escluso che, pur potendo ricorrere al sistema del credito per le imposte pagate all’estero in via definitiva, Verdi debba ulteriormente pagare altre tasse in Spagna. L’IRPF spagnola (omologa della nostra IRPEF), pur essendo parimenti progressiva, prevede degli scaglioni di reddito e delle aliquote differenti. Pertanto, a seconda del reddito prodotto, potrebbero residuare ulteriori differenze da “conguagliare” in Spagna. Tutto questo comporterà degli esborsi imprevisti che andranno a incidere negativamente sul quantum effettivamente percepito da Verdi.
Viceversa, nell’esempio ipotizzato non vi saranno da affrontare anche problematiche di tipo previdenziale o assicurativo, posto che Verdi resta regolarmente in carico all’azienda Italia per tutto il periodo di interesse e comunque vigono i regolamenti comunitari.
2) Un caso (anomalo in situazioni normali, ma piuttosto frequente in epoca Covid) è quello che si verifica laddove Verdi, durante il distacco, per ragioni legate alla pandemia, presta il proprio lavoro in smart working, restando fisicamente presente in Italia.
Orbene, qui si potrebbe facilmente rientrare nella prima parte del paragrafo 1 della norma convenzionale: Verdi svolge materialmente il proprio lavoro in Italia ed è assoggettato alla tassazione esclusiva italiana. Pertanto, non si porrebbe più il problema de quo, concernente eventuali costi ulteriori fiscali, diretti e indiretti, che vanno a diminuire il guadagno netto finale di Verdi. Ovviamente, occorrerà conteggiare con esattezza i giorni di effettiva permanenza in Italia di Verdi (ossia, in sostanza, la durata di quella parte del distacco lavorato in smart working), onde accertarsi che non venga complessivamente raggiunto in Spagna il solito parametro dei 183 giorni.
Passiamo ora a esaminare un caso differente.
3) L’azienda Italia distacca Verdi presso la società USA; il distacco dura tre anni; Verdi conserva la propria residenza fiscale italiana.
In ottica fiscale, il trattato contro le doppie imposizioni Italia / USA mantiene inalterato il testo dell’art. 15 dettato dal modello convenzionale OCSE. Pertanto, anche in questo caso valgono le medesime considerazioni svolte nel primo esempio (distacco in Spagna); seppure, a onor del vero, occorre precisare che il livello della tassazione negli Stati Uniti (anch’esso progressivo) è di norma inferiore rispetto a quello italiano. Di conseguenza, è improbabile che vi possano essere ulteriori “conguagli” fiscali; fermi restando però i costi per svolgere gli adempimenti dichiarativi comunque obbligatori in loco.
La situazione invece cambia in ottica previdenziale e assicurativa. Gli Stati Uniti non rientrano nell’area UE “allargata” di cui si è detto sopra e non hanno un accordo con l’Italia relativamente a infortuni e malattie. Questo comporterà necessariamente esborsi ulteriori che potrebbero, perlomeno in parte, ricadere in capo a Verdi. Esiste, invece, una convenzione Italia / Stati Uniti in materia previdenziale. Peraltro, tale convenzione – come quasi tutte – è abbastanza ridotta, prevedendo in sostanza solo la totalizzazione delle prestazioni pensionistiche e una contribuzione che concerne l’assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, nonché i trattamenti di previdenza sostitutivi dell'assicurazione generale. Dunque, anche sotto questo punto di vista, la situazione del dipendente in distacco non può considerarsi completamente equiparata a quella che lo stesso dipendente avrebbe svolgendo il suo lavoro in Italia.
Un terzo esempio ancora differente, ma che non di rado si verifica nel mercato del lavoro è il seguente: l’azienda Italia distacca Verdi nella società Cina; il distacco dura un anno e mezzo; Verdi conserva la sua residenza italiana.
La prima osservazione da svolgere attiene al trattato contro le doppie imposizioni Italia / Cina, il quale, fermo il resto, nella prima parte del paragrafo 1 dell’art. 15, sembrerebbe esprimersi in modo leggermente differente, se ci si attiene la testo italiano: non si scrive più “sono imponibili soltanto in detto Stato”, ma si usa la formula “possono essere tassati soltanto in detto Stato”. Ciò che potrebbe portare a un’interpretazione che prevede la tassazione concorrenziale di entrambi i Paesi anche nel caso in cui Verdi (a seguito di problemi inerenti al Covid) lavori in smart working, restando fisicamente presente in Italia durante parte del distacco. In realtà, andando a verificare il testo originario inglese del trattato, la formula usata è la seguente: “shall be taxable only in that State”. La forma “shall be” nei contratti di matrice anglosassone equivale a quella che tradotta letteralmente dall’italiano all’inglese sarebbe: “must be” (ossia, impone un obbligo). Pertanto, nessuna sostanziale differenza rispetto a quanto detto prima da un punto di vista fiscale.
I problemi, però, possono arrivare allorché ci si sposti in ottica previdenziale e assicurativa. La Cina non ha in essere con l’Italia alcuna convenzione/accordo in tema di sicurezza sociale e/o di infortuni sul lavoro. Questo comporta che si dovranno versare doppi contributi, sia in Italia che in Cina; e l’aliquota contributiva della previdenza sociale cinese – specie nelle due principali municipalità di Pechino e Shangai – è particolarmente elevata: 39% datore, 16% dipendente (seppure i contributi dovuti all’INPS possono beneficiare di un 10% circa di sconto). Tutto ciò potrebbe tradursi nella pratica in un’effettiva diminuzione del netto concretamente percepito dal dipendente in distacco. Viceversa, detto dipendente distaccato non avrebbe alcun nocumento in materia pensionistica e/o tutela previdenziale, posto che la sua posizione resta regolarmente assicurata e garantita in Italia.
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Tirando le somme, il consiglio per i dipendenti che vengono comandati in distacco transnazionale, è quello di accertarsi bene, prima di accettare la proposta, circa gli eventuali obblighi (soprattutto di ordine dichiarativo e impositivo) cui andranno incontro. Dal canto nostro, in veste di consulenti delle aziende, il compito sarà principalmente quello di redigere l’accordo di distacco tra datore di lavoro distaccante e dipendente distaccato, dando ogni opportuno spazio a un’informativa esaustiva e il più possibile dettagliata, concernente le varie implicazioni di natura fiscale, previdenziale e assicurativa, connaturate al distacco che si vuole attivare; senza limitarsi alle usuali note di carattere generale riguardanti visti e permessi di soggiorno nelle fattispecie di distacco “in uscita” extra-UE. Le anzidette informazioni, inserite nel contratto e debitamente sottoscritte dalle parti, eviteranno qualsivoglia problema tra datore e dipendente, nonché probabili rimostranze del cliente nei nostri confronti.
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