Il titolo di questo capitolo non è casuale; “cosiddetti” è il prologo a quanto si andrà meglio a specificare, poiché non è ancora sufficientemente chiaro – secondo chi scrive – cosa siano veramente, e se esistano, i paradisi fiscali “puri”, ovvero “nominali” (la definizione ultima è nostra). Essi costituiscono, piuttosto, con elevato grado di probabilità secondo noi, una fictio iuris, dato che ormai ogni commentatore, e – più diffusamente – il cittadino medio e l’operatore tendono a chiamare “paradiso fiscale” ogni Stato “dove si paghino meno tasse”[1] . Non è così, e la nostra posizione è consolidata, augurandoci facilmente dimostrabile.
La locuzione paradiso fiscale – come noto – deriva dall’inglese tax heaven (paradiso fiscale) anche se, in realtà, i primi ad usare tale definizione sono stati gli americani, con il loro tax “haven” (riparo fiscale). L’inesattezza letterale, una «e» di troppo (heaven rispetto ad haven) da cui tutto è iniziato, si è nel tempo affermata, sia per il diffuso utilizzo nei paesi di lingua non anglosassone, sia per il tratto “folkloristico” cui prima si accennava[2]. Al di là della lettera, rimane un dato che la nozione è tutt’altro che di facile individuazione, tant’è che la dottrina internazionale è concorde nel sostenere che non esiste una definizione univoca e chiara del fenomeno. Come, del resto, riconosce la stessa OCSE, che ritiene i «tentativi di fornire una precisa definizione di paradiso fiscale destinati all’insuccesso»[3]. E pare ancora veritiero questo assunto. Chi scrive, come altri in verità, preferisce da sempre parlare di “paesi a fiscalità privilegiata”, il che sgombra intanto il campo da pregiudiziali che, invero, nell’analisi di certi fenomeni dovrebbero essere tralasciate dai tecnici. Diverse, anche ridondanti, definizioni dottrinali, spesso non concretizzabili in una immediata ricezione del quadro da parte del profano. È possibile, tuttavia, rilevare che il carattere distintivo più citato dei paradisi fiscali (d’ora in poi così li denominiamo per mera comodità espositiva) è rinvenibile nell’assoluta assenza o nella riduzione consistente del prelievo tributario. Ma già qui si rinvengono Paesi con aliquote ridotte, sì, ma comunque non di molto rispetto alla media, ciò che quindi non fa gridare allo “scandalo” e non rende illegittimo il vantaggio offerto. Laddove vi fosse invece assenza totale di tassazione, cosa peraltro assai improbabile, saremmo di fronte ad un fenomeno “predatorio” di capitali, e anticoncorrenziale per definizione[4].
Senza dire inoltre della ricorrenza, nelle descrizioni mediante sinonimi di tale realtà, del ricorso alla locuzione “off-shore”. Letteralmente, “a distanza dalla costa”. Il che ha fatto, e fa, definire molti dei paesi della specie come “…luoghi esotici dai confini evanescenti ove poter custodire – con garanzia di anonimato ed inaccessibilità – il proprio patrimonio, di formazione imprenditoriale o criminale”[5].
Vi sono infatti paradisi fiscali che con questo tratto definitorio non hanno nulla a che vedere, così come vi sono posti nel mondo tanto belli ed esotici, ma che non saranno mai paradisi fiscali (campanilisticamente, anche l’Italia!). La riduttività dell’impostazione, ad oggi, se non si è capito, è - secondo chi scrive - assai approssimativa. E, semplificando ancora, nonché elidendo tutto quanto di tecnico-scientifico si possa affermare in materia, ognuno è libero di portare i propri soldi dove vuole, a due condizioni:
Da questo banale assunto si dipanerà la modesta trattazione che segue.
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Questo articolo è estratto dall'eBook "I Paradisi fiscali" a cura di Ranieri Razzante, 232 p, nel quale viene affrontata la normativa di riferimento, il segreto bancario ed il segreto fiduciario, la responsabilità e i profili penali connessi ai Paradisi fiscali.
Una prima ipotesi potrebbe sposare la proposta classificazione che guarda principalmente ai benefici fiscali offerti. Così avremmo una prima categoria includente i paradisi “a fiscalità zero”, nei quali non esiste alcuna forma impositiva. La seconda raggrupperebbe i paesi che non applicano imposte sui redditi di provenienza estera. Il terzo gruppo accoglierebbe invece gli Stati che offrono vantaggi ed agevolazioni solo ad alcune categorie di soggetti o attività[6]. Vi sono studi che parlano anche di paesi in cui si effettuano “pianificazioni fiscali aggressive”[7]. Il Parlamento Europeo, in una Risoluzione del 21 gennaio 2021[8], riprende una definizione già usata, che riguarda i cosiddetti “regimi fiscali dannosi”; anche di questa, i tratti definitori sono assai semplificabili, e riassumono i requisiti con intonazioni più “tributarie” rispetto a quelle di altro tipo (v. infra, par. seguente).
Come si può notare, quindi, variopinto è il panorama classificatorio che si potrebbe adottare, tanto da rendere confuso il lettore e persino chi studia. Resta forse un tratto comune, tanto che se si va a consultare le liste pubblicate dagli Organismi internazionali e nazionali, vi si ritrovano sempre gli stessi paesi. Ferma rimanendo la grandissima perplessità dello scrivente in ordine ai meccanismi di listing[9], pure in campi diversi da questo (ad es., quelli sul terrorismo o sul riciclaggio[10]), può aiutare il quadro sinottico aggiornato e unico della lista Ue, ove proprio di recente, il 22 febbraio 2021, il Consiglio ha inserito la Dominica, ed escluso le Barbados. Queste ultime sono finite però in una lista “grigia”, poiché è stato loro concesso un periodo di adeguamento ad impegni presi. Ma di questo si parlerà nei capitoli che seguono. Intanto va segnalato che entro la fine del 2021 dovrà essere attuata la riforma del meccanismo degli elenchi, con criteri più stringenti, che ciascuno Stato dell’Unione dovrà adottare seguendo la Risoluzione del Parlamento Ue del 21 gennaio 2021. Ancora, una definizione di “paesi non cooperativi”[11] annacqua il quadro che si sta tentando di delineare, e qui l’aggravante sta nel fatto che la locuzione viene utilizzata per rilevare sia la mancanza di cooperazione (rectius: regole) fiscale, che nel settore societario e dell’antiriciclaggio. E si evoca, da ultimo, il problema dello “scambio di informazioni” (v. infra).
Ci si potrà fermare, allora, in modo sfacciatamente pilatesco, alla definizione dell’Ocse, che vede il paradiso fiscale come “modello”, il quale si personifica nello Stato che usa la fiscalità per attrarre attività nel settore finanziario e non finanziario[12]. Ritenendo di aggiungere che un paradiso fiscale si caratterizzi, oltre che per quanto sopra accennato circa i vantaggi tributari concessi, anche per un carente scambio di informazioni e per la mancanza di trasparenza. Sommando a tutto ciò la mancanza di applicazione degli standard minimi in materia di “corporate governance” e contabilità, ci avviciniamo ai giorni nostri, con la definizione ricavabile da un utile documento Ue del maggio 2018[13].
Non bastano però le definizioni sopra enunciate a riferire di tutte le sfaccettature del fenomeno che potremmo ricondurre alla “lack of transparency” degli ordinamenti societari e finanziari. Ciò perché si sono agganciate al carro della storia dei paradisi fiscali quelle fattispecie “aggiuntive”, come ci piace definirle, che hanno creato delle ipotesi di species del genus tax haven. Se, ad esempio, si aggiunge alla profilabilità di tipo tributario la carenza di segreto bancario (nel senso che esso è rafforzato), la limitazione agli accertamenti bancari stessi o patrimoniali, la facilità della realizzazione di operazioni finanziarie e valutarie, ci si trova ragionevolmente in presenza di casi di “paradisi finanziari”[14]. Il problema del segreto bancario resta ancora primario, nonostante l’evoluzione delle convenzioni e delle regole in campo internazionale. A nostro avviso, rimane un segreto de facto, che lotta e resiste a tutte le intemperie legislative, e che è semplicemente quello che si garantisce a clienti, anche in Stati insospettabili, laddove si riesca ad opporre – anche alle Autorità – una riservatezza riguardante la consistenza dei patrimoni in presenza di richieste che non sottendano la contestazione di specifici reati[15]. Dietro ad una generica quanto debole interlocuzione, infatti, è facile opporre “asili fiscali” (il termine è di chi scrive), purché il soggetto abbia stabilito legittimamente la residenza o possa giustificarla secondo le norme internazionali vigenti[16].
Per questo andrebbe a nostro avviso salutata con estremo favore la proposta di contromisure del Parlamento Ue, nella risoluzione più volte citata del 21 gennaio 2021 (punto 26), avverso l’elusione fiscale: non deducibilità dei costi, misure di ritenute alla fonte, limitazioni dell’esenzione delle partecipazioni, conseguenze su requisiti per appalti pubblici ed aiuti di Stato, sospensione della convenzione su doppie imposizioni eventualmente esistente. Altra definizione che pure viene utilizzata nel settore di studio che ci interessa è quella di “paradisi societari”, che include(rebbe)[17] gli Stati in cui si possono costituire società di capitali senza particolari vincoli – quelli che sono posti a base della stessa esistenza, in ordinamenti giuridici come il nostro, di dette entità - alla capitalizzazione sociale e, soprattutto, alla emissione di azioni al portatore. Soprattutto la agevole nascita di trusts e analoghi veicoli societari viene considerata “pericolosa” in chiave anti-elusiva. Ciò è ovviamente vero in sè, data la particolare configurazione ontologica che hanno i soggetti giuridici de quibus, senza che però si possa pensare ad una pregiudiziale “criminalità” del fenomeno. I cosiddetti “paradisi finanziari” (meglio che bancari), invece, risultano caratterizzati da ostruzionismi sugli accertamenti bancari e patrimoniali; dalla garanzia di assoluto anonimato per i loro clienti; dalla facilità che gli investimenti garantiscano incomparabili performance, mercè la tassazione ridotta dei redditi di capitale prodotti da persone fisiche o giuridiche. Il costo dei servizi offerti è, di conseguenza, assai contenuto, anche se l’investitore del paradiso fiscale/finanziario non si preoccupa più di tanto del prezzo del denaro, dato che – in ogni caso – non vi sarà mai tassazione nel paese d’origine che sia più competitiva. Inoltre, le provvigioni agli intermediari potranno essere più o meno consistenti, ma questi ultimi, lavorando sulla quantità di risparmio raccolta, ben si accontenteranno di fees inferiori alla media. A ben guardare, scorrendo quanto sinotticamente indicato più sopra, non può che giovare – ad avviso di chi scrive – la inclusiva definizione dei “paradisi normativi”, che propugnamo da tempo, e che poco abbiamo visto citare[18]. Si tratta di quei luoghi in cui l’ordinamento giuridico ed economico sono governati da poche regole, spesso non codificate, e pertanto di difficile e scarsa applicazione. Ve ne sono offshore e in Europa.
Ciò perché la compliance garantita alle norme societarie, fiscali, antiriciclaggio, della finanza, è – quando non inesistente – a dir poco blanda. Ad esempio, alcuni Stati Ue sono ancora indietro nell’attuazione delle direttive antiriciclaggio, così come sullo scambio di informazioni aventi natura fiscale. Non bisogna meravigliarsi. Non è forse lo stesso, allora, definire “normativo” qualsiasi “paradiso” delle regole, ove cioè è concessa la loro disapplicazione (rectius, disintermediazione) senza, in ogni caso, che sia prevista una sanzione adeguata per chi lo faccia?[19] Riteniamo, conclusivamente, che detta aggettivazione del “paradiso” debba (e possa) sostituirsi, se non altro che per snellire il linguaggio e la comprensione del fenomeno qui accennato (e del quale, funditus, nei pregevoli capitoli che seguiranno), alle altre citate spesso, a nostro avviso, senza la consapevolezza dei loro confini. Chiaro è che l’approccio che si propone consente di attribuire un maggior peso anche all’analisi “politica” del fenomeno, studiata con profondità da vari studiosi, poiché è più che fondato il contributo “collusivo” di governi e istituzioni di questi Paesi. Corruzione, riciclaggio, finanziamento del terrorismo, sono solo alcuni dei reati “spia” che evidenziano, sovente, questa realtà, ed è per questo che gli strumenti di contrasto che si sono messi in campo, e che vanno affinandosi, sono la risultante di provvedimenti sovranazionali trasversali. Forse, senza ambizione che sia vero, potrebbe risultare più efficace la disamina del fenomeno de quo, ma anche la sua qualificazione normativa (specie dopo le numerose problematiche, qui evidenziate, causate dall’automatismo delle liste), sintetizzandone i tratti nel linguaggio. Molto spesso le parole hanno più importanza dei concetti stessi che sottendono.
Questo articolo è estratto dall'eBook "I Paradisi fiscali" a cura di Ranieri Razzante, 232 p, nel quale viene affrontata la normativa di riferimento, il segreto bancario ed il segreto fiduciario, la responsabilità e i profili penali connessi ai Paradisi fiscali.
[1]“…non bisogna comunque incorrere nell’errore di considerare che ogni delocalizzazione societaria sottenda ineludibilmente tecniche di drenaggio verso località ove la presenza del fisco è meno incisiva ed invasiva rispetto al territorio di origine”: così G. Caramignoli, I lineamenti essenziali dell’azione di contrasto, in Black list e paradisi fiscali, AA.VV., Maggioli editore, 2011, pp. 13-14. Contra, apoditticamente, V. Daniele, Paradisi fiscali e globalizzazione, in Ordines, n. 1/2017, pp. 59-66. Un risalente quanto indispensabile studio affronta il tema delle definizioni: I paradisi fiscali: caratteristiche operative, evidenze empiriche e anomalie finanziarie, di M. Gara e P. De Franceschis, Quaderni dell’Antiriciclaggio della Uif, agosto 2015. Dati aggiornati sul fenomeno sono nel Rapporto La competizione fiscale in Italia e nel mondo, a cura di The European House Ambrosetti, 2020. Utile, tra gli altri, il richiamo alle Direttive Ue ATAD e DAC 6, delle quali si parlerà in questo Volume. Un volume recente, di grande interesse, è di AA.VV., La cooperazione internazionale in materia di contrasto all’evasione, all’elusione e alle frodi fiscali, Quaderni della Scuola di Polizia Economico-Finanziaria della Gdf, febbraio 2021.
[2] Definizione più corretta sarebbe, secondo F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2016, p. 396, proprio quella di “haven”.
[3] OCSE, International tax avoidance and evasion, Parigi, 1987, p. 21.
[4] Il dumping fiscale non si fonda però certamente su questo, né, tantomeno, qualsiasi pianificazione fiscale che si rispetti, avente comunque sempre una logica, non necessariamente criminale! Il concetto è senza dubbio meglio riassunto da P. Selicato, voce “Paradiso Fiscale”, in Il diritto, Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, pp. 636-640; contra, ma con una indicativa riassunzione storica del fenomeno, G. Zucman, La ricchezza nascosta delle nazioni, Torino, 2015. Si aggancia alla nostra idea quella espressa in AA. VV., Profili economici, finanziari e criminali nel contesto internazionale, Pubblicazioni della Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, 2008, ove, chiaramente: “il ricorso ad un tax haven, al verificarsi di condizioni che ne diano una giustificazione valida concreta (…), è da considerarsi consentito, come nel caso della c.d. international tax planning”. Per una metodologia di studio dei flussi verso i paradisi fiscali, A. Cassetta, C. Pauselli, L. Rizzica e M. Tonello, Financial flows to tax havens: determinants and anomalies, Quaderni dell’antiriciclaggio Uif, marzo 2014.
[5] Così G. Caramignoli, cit., p. 19. Si veda, inoltre, A. R. Ciarcia, I paradisi fiscali e la indeducibilità dei costi black list, in Revista Instituto Colombiano de Derecho Tributario, n. 76/2017, pp. 397-418.
[6] S. Garufi, Strategie internazionali di contrasto ai Paesi a regime fiscale privilegiato, Egea, 2013; G. Marino, Paradisi e paradossi fiscali, Egea, 2009. Di quest’ultimo, illuminante e di straordinaria efficacia narrativa è l’introduzione al volume stesso, cui rinviamo per una indispensabile lettura. Basti solo riportare: “la morale è che il fenomeno dei paradisi fiscali, come il fenomeno della prostituzione, è antico quanto l’uomo, va indagato, declinato in relazione alla fisionomia dell’umanità in un determinato momento storico, ma senza la pretesa di giungere alla parola fine”. In argomento, altresì A. Cobham, P. Jansky, Global distribution of revenue loss from corporate tax avoidance, in Journal of International Development, 30, 2018, pp. 206-232.
[7] Da ultimo, L’Unione Europea e le eccessive differenze nella tassazione dei profitti tra paesi, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, 16 maggio 2020, anche se vi si precisa, in fase introduttiva, che la denominazione de qua, riveniente dalla Commissione Ue, “non ha nessuna conseguenza pratica, se non attraverso un generico processo di name and shame”.
[8] Risoluzione 2020/2863(RSP) sulla riforma dell’elenco dei paradisi fiscali.
[9] Sui quali, più autorevolmente, si è di recente pronunciato il Parlamento europeo, nella citata Risoluzione 2020/2863/RSP del 21 gennaio 2021, laddove ha sancito – al considerando M – la “confusa ed inefficace” formula degli elenchi, stanti i risultati che pure lì vengono richiamati. Si veda anche la interessante ricerca di Oxfam, Eu tax haven blacklist review, 15 febbraio 2021, in www.oxfam.it.
[10] Qui ci si consenta il rinvio, solo perchè aggiornata ne risulta anche la bibliografia, al nostro Manuale di legislazione e prassi antiriciclaggio, Giappichelli, 2020. Sulle liste in campo fiscale, di recente, A. Lisi, Le molteplici nozioni di paradiso fiscale, in Diritto tributario italiano, giugno 2020, pp. 332-337.
[11] Per la quale appare utilissimo rinviare alla raccomandazione della Commissione Europea C(2020) 4885 del 14 luglio 2020, che tratta dello specifico problema.
[12] OCSE, Harmful tax competition – An emerging global issue, 19 maggio 1998, opportunamente richiamato, tra gli altri e più recentemente, da F. Pecorari e I. Viola, in Paradisi fiscali: strumenti di contrasto a livello internazionale, europeo e nazionale, La gestione straordinaria delle imprese, n. 3/2019.
[13] Listing of tax havens by the EU, rinvenibile sul sito internet dell’Istituzione. Per una descrizione sinottica ed efficace dei vari provvedimenti succedutisi allo stesso livello legislativo, si veda lo scritto di Pecorari e Viola sopra citato.
14] Così nel citato Quadermo Gdf, 2008, p. 12; R. Cordeiro Guerra, Criminalità economica e paradisi fiscali, in Riv. Gdf, n. 2/2016, pp. 349-376.
[15] Sul segreto bancario, per sue basilari considerazioni, ci si consenta il rinvio a R. Razzante, F. Toscano, Il segreto bancario nelle indagini tributarie e antiriciclaggio, Giuffrè, 2011.
[16] A tal fine, interessantissimo lo studio Ocse pubblicato nel febbraio 2021, dal titolo “Ending the Shell Game: Cracking down on the Professionals who enable Tax and White Collar Crimes”; inoltre, I. Aliano, Trasferimento di cittadini italiani nei c.d. “paradisi fiscali” ed inversione dell’onere della prova, in Diritto.it, 2017.
[17] Si è già detto che dette ulteriori species si ritengono sussumibili nella nozione unica, più avanti meglio dettagliata, di “paradisi normativi”
[18] Da ultimo, nel nostro Manuale di legislazione e prassi antiriciclaggio, cit. D’altronde, che si creino “spazi” nei Paesi a minore potenzialità di compliance normativa lo riassume bene M. P. Hampton, Creating spaces: the political economy of island offshore financial centres, ed. Geographische, 2016
[19] In tal senso, da ultimo, G. Tartaglia Polcini, Paradisi normativi e paradisi fiscali: non soltanto centri di raccolta per capitali in fuga, in Il diritto penale della Globalizzazione, Rivista edita da Pacini editore, 28 maggio 2017.