Accade talvolta che gli enti non commerciali si trovino nella necessità, o ravvisino l’opportunità, di cessare attività di carattere commerciale che svolgono in maniera non prevalente. Ciò può dipendere dalla sopravvenuta impossibilità o antieconomicità del proseguirne la gestione.
Le implicazioni della conseguente estromissione dei beni impegnati dall’ente in tali attività meritano di essere esaminate, perché:
Si tratta, quindi, del caso in cui si intenda attuare un cambio di destinazione del bene che, prima impegnato in attività commerciali, venga poi sottratto alla sfera della commercialità, e così “trasferito” nel patrimonio destinato allo svolgimento delle attività istituzionali. Si pensi, ad esempio, all’immobile dell’ente religioso che, inizialmente utilizzato per svolgervi attività commerciali di natura ricettiva, o scolastica, venga poi destinato all’attività istituzionale dell’ente avendo l’ente valutato non più utile svolgere tali attività commerciali.
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Per la qualificazione dei beni appartenenti agli enti non commerciali, occorre fare riferimento alle disposizioni dettate in materia di imprese individuali dal D.P.R. 917/1986.
L’articolo 144, c. 3, del Tuir, riferito alla determinazione dei redditi degli enti non commerciali, prevede infatti che “per l’individuazione dei beni relativi all’impresa si applicano le disposizioni di cui all’articolo 65, commi 1 e 3-bis”.
Secondo questa ultima norma, sono beni relativi all’impresa quelli strumentali per l'esercizio dell'impresa stessa e comunque i beni che siano indicati tra le attività relative all'impresa nell'inventario tenuto a norma dell'articolo 2217 del codice civile.
Una volta che l’immobile dell’ente è iscritto nell’inventario, esso acquisisce perciò, dal punto di vista tributario, la qualificazione di bene relativo all’impresa.
Ne consegue che la fuoriuscita del bene dall’attività commerciale per adibirlo a scopi istituzionali configura una destinazione del bene a finalità estranee all’esercizio dell’impresa[i].
L’estromissione del bene dalla sfera imprenditoriale è regolata dall’articolo 86 del Tuir (Plusvalenze patrimoniali), secondo il quale costituisce reddito per l’impresa l’assegnazione del bene ai soci o la sua destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa[ii].
In tal caso, la plusvalenza da assoggettare a tassazione è costituita dalla differenza tra il valore normale del bene e il suo costo non ammortizzato.
Il valore normale, a sua volta, per l’Erario corrisponde (art. 9 del Tuir) al prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, ossia, in sostanza, al valore in comune commercio del bene.
La plusvalenza così determinata potrà essere sottoposta a tassazione in un massimo di cinque quote annuali.
Inoltre, la destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai fini IVA è considerata cessione di beni[iii] ai sensi dell’articolo 2, secondo comma, nr. 5 del DPR n. 633 del 1972, con esclusione però di quei beni per i quali non sia stata operata, all'atto dell'acquisto, la detrazione dell'imposta di cui all'articolo 19.
[i] L’Agenzia delle Entrate si è occupata della questione della estromissione con la risoluzione 96 del 3/8/2006, nella quale viene chiarito che i beni strumentali (sia per destinazione che per natura) sono relativi all'impresa solo se iscritti nel libro inventari. Ed inoltre, che a seguito della fuoriuscita di detti beni dall'inventario si viene a configurare una destinazione del bene a finalità estranee all'esercizio di impresa che, appunto, rileva fiscalmente ai sensi dell'articolo 86 del Tuir, con conseguente tassazione dell'eventuale plusvalenza.
[ii] Diverso è il caso di quegli enti che abbiano la qualifica di Onlus, per i quali in alcuni casi la estromissione, in costanza di qualifica dell’ente, potrebbe non generare plusvalenza.
[iii] Cfr. Circolare 18/E del 1/8/2018.
Dalla breve disamina che precede appare evidente come l’ente non commerciale che abbia deciso di sottrarre un bene alla sfera commerciale nell’ambito della quale questo era in precedenza utilizzato potrebbe, potenzialmente, dover affrontare oneri tributari piuttosto gravosi.
Con l’art. 110 del D.L. 104/2020 (c.d. Decreto agosto) è stata però prevista la possibilità di rivalutare in via agevolata i beni di impresa.
La rivalutazione di tali beni è rivolta ai soggetti indicati nelle lettere a) e b) del comma 1, articolo 73 del Tuir, tra cui rientrano principalmente le società di capitali.
Tuttavia, il c. 7 del medesimo articolo 110, richiamando le disposizioni contenute nell’articolo 15 della legge n. 342/2000 (la quale originariamente ha dettato la normativa sulla rivalutazione), estende la disciplina della rivalutazione dei beni anche alle società di persone, alle imprese individuali ed agli enti non commerciali residenti.
La norma specifica che questi soggetti possono rivalutare i beni d’impresa risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2019 (con l’esclusione degli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa).
L’adesione alla normativa agevolativa comporta il pagamento di un’imposta sostitutiva del 3% calcolata sul maggior valore attribuito al bene, che va versata in un massimo di tre rate annuali di pari importo, con scadenza entro il termine per il saldo delle imposte sui redditi del relativo esercizio. Come è ovvio, l’incremento del valore del bene ottenibile col pagamento dell’imposta sostitutiva del 3% comporta, potenzialmente, l’annullamento (o la riduzione) della plusvalenza ex art. 86 cui si faceva cenno più sopra.
La rivalutazione avviene nell’esercizio successivo (2020) ed il maggior valore attribuito ai beni è riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap (quindi, ad esempio, per il calcolo degli ammortamenti), a decorrere dall’esercizio successivo a quello nel quale la rivalutazione è stata eseguita; pertanto, di norma, il riconoscimento avverrà a decorrere dal periodo d’imposta 2021 se è adottato l’esercizio solare.
La rivalutazione ha effetto anche ai fini:
A tali ultimi fini la rivalutazione ha però effetto solo a partire dal quarto esercizio successivo a quello nel cui bilancio la rivalutazione è stata eseguita, e perciò dal 2024. Pertanto, ove una di tali operazioni venisse posta in essere prima dell’inizio del quarto anno dal bilancio di rivalutazione, l’incremento di valore del bene posto in essere con l’utilizzo della rivalutazione agevolata non avrebbe rilevanza tributaria.
La rivalutazione del bene avrà come conseguenza, oltre all’incremento del suo valore di bilancio anche che in contropartita verrà rilevato un incremento del capitale o la creazione di una riserva patrimoniale denominata “riserva di rivalutazione D.L. 104/2020”.
Tale posta costituisce una riserva da tassare in caso di distribuzione[i], a norma dell’art. 13 L. 342/2000.
Tale tassazione può però essere evitata ove si provveda ad affrancare preventivamente la riserva versando una ulteriore aliquota del 10%, come prevede il comma 3 dell’art. 110 della attuale legge agevolativa.
Di norma, ossia se non si procede a tale preventivo affrancamento, la distribuzione delle riserve da rivalutazione dà luogo nelle società:
Se viceversa viene effettuato l’affrancamento della riserva, col versamento del 10% del saldo di rivalutazione, in caso di distribuzione:
[i] A norma dell’art. 13 L. 342/2000, “se il saldo attivo viene attribuito ai soci o ai partecipanti mediante riduzione della riserva prevista dal comma 1 ovvero mediante riduzione del capitale sociale o del fondo di dotazione o del fondo patrimoniale, le somme attribuite ai soci o ai partecipanti, aumentate dell'imposta sostitutiva corrispondente all'ammontare distribuito, concorrono a formare il reddito imponibile della società o dell'ente e il reddito imponibile dei soci o dei partecipanti”.
Il caso dell’ente non commerciale che operi la estromissione di un cespite rivalutato non pare purtroppo esplicitamente rinvenibile nella norma, né nella prassi emanata. Esso va quindi ricostruito, in quanto la normativa sulla rivalutazione dei beni è principalmente dettata per le società di capitali, e poi estesa alle società di persone ed agli enti non commerciali.
In proposito può affermarsi, anzitutto, che ove si operi la rivalutazione col versamento del 3% si acquisisce evidentemente la non tassabilità della corrispondente plusvalenza figurativa ex art. 86 Tuir conseguente alla estromissione (nei limiti, com’è ovvio, del valore rivalutato).
Gli interventi di prassi hanno esplicitamente affermato[i] che per quanto riguarda l’estromissione del bene rivalutato con destinazione dello stesso a finalità estranee all'esercizio dell'impresa, purché ciò avvenga in data non anteriore all’inizio del quarto esercizio successivo a quello in cui la rivalutazione è stata eseguita, ai fini della determinazione della plusvalenza o minusvalenza si terrà conto del maggior valore attribuito al bene in sede di rivalutazione.
Pare pertanto indubbio che – nel rispetto del ricordato limite temporale – l’eventuale reddito imponibile in capo all’ente che estromette il bene (plusvalenza “figurativa” di cui all’art. 86 del Tuir), andrà calcolato assumendo il valore rivalutato come valore del costo non ammortizzato del cespite.
Per quanto attiene invece all’annullamento della riserva creatasi per effetto della rivalutazione ed alla eventuale tassazione conseguente, si tratta ora di comprendere se gli enti non commerciali possano trarre un beneficio dal pagamento della ulteriore imposta del 10% necessario all’affrancamento della riserva di rivalutazione.
Occorre in questo caso tener conto del fatto che, per gli enti non commerciali, difficilmente può verificarsi una riduzione della riserva per le motivazioni che ne generano la tassazione a norma dell’art. 13 della L. 342/2000 (ossia, la sua attribuzione ai soci).
Inoltre, va anche tenuto conto del fatto che:
In proposito, con la circolare 14 del 2017 l’Agenzia delle Entrate ha affermato che “con riferimento ai soggetti in contabilità semplificata, invece, si ricorda che in assenza del bilancio non opera la predetta tassazione del saldo attivo di rivalutazione in caso di distribuzione”[ii]. Ove la riserva venisse eliminata, per questi enti appare quindi ben sostenibile che essa non sarebbe comunque tassata, in ragione del regime contabile adottato e della mancanza di un bilancio nel quale essa riserva sia rilevata.
Vi sono quindi utilizzi e circostanze per le quali è stato chiarito che all’eliminazione della riserva non consegue una tassazione.
Come già detto, per l’ente non commerciale appare difficile individuare casi nei quali si addiverrebbe ad un annullamento della riserva di rivalutazione per circostanze riconducibili alla sua distribuzione.
Se invece il bene venisse ceduto a titolo oneroso a terzi, ciò non comporterebbe necessariamente l’eliminazione della riserva.
Tale annullamento si potrebbe allora avere, forse, in caso di successiva donazione del bene (ove la conseguente riduzione patrimoniale non sia bilanciata dalla capienza del patrimonio restante dell’ente), o di devoluzione del patrimonio per scioglimento dell’ente.
Ed anche tali ipotesi appare dubbio che rientrino tra quelle generatrici di tassazione della riserva eliminata, poiché, oltre ad essere privi di corrispettivo, si tratterebbe di atti rivolti a soggetti esterni all’ente (non, in altre parole, ai “soci o partecipanti” di cui parla l’art. 13 della L. 342/2000 con riferimento alla riduzione del capitale sociale o del fondo di dotazione o del fondo patrimoniale).
Conclusivamente, appare oltremodo opportuno, in vista della estromissione del bene dalla attività commerciale dell’ente, operarne la rivalutazione col pagamento dell’imposta sostitutiva del 3%; mentre, prima di accedere alla ulteriore ipotesi di affrancamento della riserva di rivalutazione, è bene considerare quale utilizzo e destinazione successivi saranno dati al bene.
[i] Cfr. ad es. circolare 14/E del 27/4/2017.
[ii] Tale trattamento conferma quanto era già stato chiarito nella circolare 18/E del 13/6/2006.