Con ordinanza n. 1290 del 22.01.2021 la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, ha respinto il ricorso proposto da un’associazione professionale tra avvocati e dagli stessi associati, confermando la decisione della CTR di Milano nella parte in cui ha ritenuto attendibili i risultati di apposito studio di settore, che avevano accertato un maggior reddito dell’associazione per il periodo d’imposta 2005, da imputare, per partecipazione, agli associati. Cassava con rinvio, invece, la medesima sentenza nella parte in cui non riconosceva la retroattività dello strumento di accertamento standardizzato più recente, in quanto più affidabile e raffinato.
Nel dettaglio e in riferimento alla fattispecie concreta, le parti in causa (rispettivamente, lo Studio associati e ciascuno degli associati) impugnavano, innanzi alla Commissione tributaria provinciale, avvisi di accertamento, ai fini IRPEF, IRAP e IVA, diretti rispettivamente all’Associazione e a ciascun legale, che recuperavano a tassazione, sulla base di specifico studio di settore, per il periodo d’imposta 2005, il maggiore reddito dell’Associazione, da imputare, per partecipazione, agli associati.
La CTP di Milano (sent. n. 370/44/2011) accoglieva il ricorso; tuttavia, la Commissione tributaria regionale di Milano sull’appello dell’ufficio, nel contraddittorio dei contribuenti, riformava la decisione, considerando “legittimo l’accertamento di maggiori ricavi sulla base delle studio di settore che assume rilevanza presuntiva, nella specie non superata dagli elementi difensivi dedotti dai contribuenti, pure esaminati, in fase amministrativa, dall’organo di controllo”.
Di conseguenza, l’Associazione e gli associati, con distinti atti, proponevano ricorso per la cassazione della sentenza della CTR, mentre l’Agenzia resisteva con controricorso.
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Il Collegio ha analizzato dapprima le doglianze dei ricorrenti circa la violazione dell’obbligo di “motivazione rafforzata” dell’atto impositivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria, a seguito delle risultanze del contraddittorio endoprocedimentale.
A tal proposito i Giudici di legittimità hanno precisato di volersi conformare ai precedenti giurisprudenziali in merito agli studi di settore.
In particolare, si è specificato come la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore o dei parametri, costituisca un metodo a presunzioni semplici, la cui gravità precisione e concordanza non è automaticamente determinata dallo scostamento dei redditi dichiarati rispetto agli standard di riferimento, ma può avviarsi solo dopo un contraddittorio obbligatorio ex lege con il contribuente, pena la nullità dello stesso accertamento.
È proprio in questa fase, infatti, che il contribuente può contestare le risultanze dello studio di settore, provando circostanze concrete a sostegno dello scostamento reddituale rilevato. In tal modo costringerà l’ufficio accertatore ad integrare la motivazione dell’atto impositivo, dovendo indicare con precisione le ragioni del proprio convincimento, qualora non le ritenga attendibili. (Si veda in tal senso, Cass. Sent. n. 27617/18).
In sostanza, dal comportamento processuale del contribuente, discende l’obbligo per l’ufficio di fornire una motivazione rafforzata: non potrà semplicemente rilevare lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard del settore, ma dovrà fornire le ragioni specifiche per le quali sono state disattese le risultanze a contrario fornite dal contribuente in sede di contraddittorio. Solo così, infatti, si potranno ritenere gravi precise e concordanti le presunzioni basate sugli studi di settore (Cass. Sent. n. 30370/17; Cass. Sent. n. 14091/17).
Nel caso di specie, tuttavia, l’Amministrazione Finanziaria non avrebbe violato alcun obbligo di motivazione rafforzata, poiché ha ritenuto non convincenti gli elementi a difesa forniti dai ricorrenti in sede di contraddittorio nella fase amministrativa; oltre a ciò negli avvisi di accertamento erano indicate le ragioni a sostegno dei maggiori recuperi fiscali, ovverosia l’assenza di un fondamento oggettivo, che giustificasse un diverso criterio di riparto di spese tra l’associazione e i due associati.
Ulteriore aspetto che emerge dalla richiamata ordinanza è che i costi dell’attività individuale dei soci non possono imputarsi all’associazione.
Nel dettaglio, i ricorrenti avevano ascritto alla CTR di avere male interpretato le norme che disciplinano l’impiego degli studi di settore, le quali prevedono la necessità che siano vagliati tutti gli elementi di “controanomalia” nelle singole fattispecie diretti a dimostrare che, in concreto, i parametri statistici non rappresentano uno strumento idoneo a consentire una ricostruzione affidabile dei ricavi conseguiti dal singolo contribuente; da tale erroneo approccio ermeneutico la CTR, avendo considerato i redditi dell’associazione separatamente da quelli dei singoli associati avrebbe valorizzato esclusivamente i risultati negativi conseguiti dall’associazione nell’esercizio oggetto d’accertamento e in quelli successivi, trascurando che si trattava di risultati parziali, inidonei a rappresentare la complessiva realtà economica (comprensiva delle posizioni individuali degli associati), la quale invece si presentava non soltanto produttiva di risultati positivi, nel 2005 e nella quasi totalità degli esercizi successivi, ma anche “congrua” agli studi di settore.
I contribuenti avevano allegato che, nel caso di specie, l’associazione professionale aveva sostenuto la maggior parte dei costi di struttura (canoni di locazione, personale, utenze) e aveva percepito i compensi derivanti dall’esercizio di una specifica attività professionale (recupero crediti stragiudiziale), mentre i due professionisti associati avevano sostenuto in proprio alcuni costi e percepito compensi in relazione a ulteriori attività giudiziali, svolte in forma individuale.
A fronte di ciò i Giudici della Suprema Corte preliminarmente specificano come i redditi delle associazioni professionali, determinati ai sensi degli artt. 53, 54 T.U.I.R., per esplicita previsione di cui all’art. 5, comma 3, lett. C) T.U.I.R., che le equipara alle società semplici, sono imputati agli associati in virtù del principio di trasparenza fiscale.
Allo stesso modo, anche le perdite ed i costi delle associazioni tra professionisti saranno deducibili dal reddito complessivo di ciascun associato in proporzione alla quota di partecipazione agli utili, ai sensi dell’art. 8 T.U.I.R.
In definitiva, secondo la Cassazione, dal punto di vista fiscale non è permesso imputare all’associazione i costi dell’attività individuale del singolo professionista associato, la quale si considera diversa ed autonoma.
Nel caso di specie, dunque, i ricorrenti avevano imputato all’Associazione i costi di struttura, ricomprendendovi quelli che avrebbero dovuto essere riferibili alle rispettive autonome ed individuali attività professionali.
Ciò non è consentito poiché, in tal modo, si scinderebbe illegittimamente la correlazione tra costi reali e ricavi reali, fondamentale ai fini di una veritiera rappresentazione della situazione reddituale dell’Associazione da un lato e dei singoli professionisti, dall’altro.
Dette attività non possono considerarsi un unicuum dal punto di vista fiscale.
Ad avviso della Suprema Corte, dunque, sarebbe corretto il ricorso nel caso di specie allo studio di settore quale metodo accertativo del reddito dell’ente collettivo e del reddito di partecipazione dei singoli associati.
In ultimo, la sentenza analizzata, prende in considerazione le doglianze dei ricorrenti relativamente alla mancata pronuncia da parte della CTR sulla questione relativa all’applicazione da parte dell’Ufficio accertatore dello studio di settore denominato TKO4U anziché quello cosiddetto “evoluto” UKO4U.
Ritiene la Corte di dover in tal caso accogliere l’assunto dei ricorrenti, in conformità all’indirizzo di legittimità, poiché l’accertamento tributario mediante studi di settore o applicazione dei parametri costituisce un sistema unitario, frutto di progressivi affinamenti tecnici di rilevazione della redditività per categorie omogenee di contribuenti, per la quale si giustifica la retroattività dello strumento più recente, in quanto sicuramente più affidabile (Cass. 07/08/2019, n. 21064).
In conclusione, dalle considerazioni della Corte si ricava il principio secondo cui «i costi della diversa ed autonoma attività individuale degli associati non possono essere imputati alla struttura dello studio legale».
Del resto, l’art. 5, comma 3, lettera c), del Tuir, stabilisce che “le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici”; di conseguenza, il reddito di impresa prodotto viene automaticamente attribuito per trasparenza ai soci in proporzione alle quote di partecipazione agli utili degli stessi ed indipendentemente dalla percezione degli stessi (Cass., SS.UU., sent. n. 14815, 4 giugno 2008).
L’associazione tra professionisti è un soggetto strumentale, volto a produrre reddito attribuito agli associati. Pur priva di personalità giuridica, l’associazione professionale è destinataria dell’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria - i cui controlli possono svolgersi anche mediante l’utilizzo degli studi di settore - e, dunque, è tenuta al rispetto di obblighi di chi produce reddito, come la tenuta di scritture contabili; di contro, il maggior reddito che si dovesse accertare, si ripercuote sui singoli associati per il principio di trasparenza.
Di rilievo anche il richiamo alla ripartizione dell’onere della prova; i giudici di legittimità, facendo riferimento a precedenti orientamenti giurisprudenziali ribadiscono come l’ufficio sia tenuto ad indicare in modo esplicito le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio: solo in questo modo possono «emergere quei caratteri di gravità, precisione e concordanza attribuibili alla presunzione basata sui suddetti parametri, idonei a commisurare la presunzione stessa alla concreta realtà economica dell’impresa».
Sul piano funzionale, l’ufficio, nel contraddittorio svoltosi nella fase amministrativa, deve esaminare gli argomenti difensivi dei contribuenti al fine di giudicarli non persuasivi; per altro verso, negli avvisi di accertamento, risulta fondamentale indicare chiaramente le ragioni su cui poggiano i recuperi fiscali, riconducibili, in sostanza, all’assenza di un criterio oggettivo che giustifichi un differente modo di riparto delle spese tra l’ente collettivo e gli associati
In concreto, per non incorrere quindi in un difetto di motivazione, l’atto impositivo deve dare motivata contezza delle ragioni che inducono l’ufficio a non ritenere attendibile le allegazioni della parte (cfr., ex multis, Cass. n. 11633 del 2013, n. 17646 e n. 20414 del 2014, n. 3415 del 2015 e n. 6114 e n. 10047 del 2016).
Infatti, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
Peraltro, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione della persona giuridica dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame; di contro, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. Inoltre, l’esito del contraddittorio, non può condizionare l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte (Cass. SS.UU, sent. n. 26635 del 18/12/2009).