Come è noto, l’art. 119 del Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “Rilancio”), prorogato sino al 30 giugno 2022 dall’art. 1, c. 266 della Legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di bilancio 2021), ha introdotto una detrazione pari al 110% delle spese sostenute per alcuni interventi edilizi in materia di risparmio energetico, di adeguamento antisismico, nonché per l’installazione di impianti fotovoltaici funzionali all’ottenimento di risparmio energetico (il c.d. superbonus 110%).
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Il soggetto beneficiario che sostiene le spese può utilizzare direttamente la detrazione fiscale spettante oppure, ai sensi dell’articolo 121 del decreto, può trasformare la detrazione in credito d’imposta, optando alternativamente:
a) per uno sconto sul corrispettivo dovuto al fornitore dell’opera edilizia, di importo massimo non superiore al corrispettivo stesso[1], accordato dal fornitore. Quest’ultimo recupera lo sconto, subentrando al primo soggetto beneficiario della detrazione trasformata in credito d'imposta, per un importo pari alla detrazione spettante, con facoltà di successive cessioni di tale credito ad altri soggetti, ivi inclusi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari;
b) per la cessione del credito d'imposta, corrispondente alla detrazione spettante, ad altri soggetti, ivi inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari, con facoltà di successive ulteriori cessioni.
I crediti d'imposta, che non sono oggetto di ulteriore cessione, sono utilizzati in compensazione attraverso il modello F24 e sono fruiti con la stessa ripartizione in quote annuali con la quale sarebbe stata utilizzata la detrazione (5 anni). La quota di credito d'imposta non utilizzata nell'anno non può essere fruita negli anni successivi, e non può essere richiesta a rimborso.
Nella stragrande maggioranza dei casi lo sconto operato dal fornitore o il prezzo corrisposto per l’acquisto del credito d’imposta sarà inferiore al suo valore nominale. Si pone, quindi, il problema di individuare quale sia la natura contabile e la competenza economica della differenza fra i due valori.
I commentatori hanno approfondito l’argomento giungendo, però, a soluzioni spesso non omogenee.
Alcuni di loro, partendo dal fatto che la possibilità di sconto in fattura, come alternativa alla detrazione diretta da parte del beneficiario, contribuisce al rilancio dell’economia nei settori più colpiti dalla crisi, ritengono che il surplus andrebbe inteso come un beneficio destinato al fornitore, se non utilizzato dal primo beneficiario. Di conseguenza, esso costituirebbe un contributo in conto esercizio concesso dallo Stato nei confronti dell’impresa che esegue i lavori, di competenza economica e, per questo motivo, tassabile nell’esercizio in cui sorge il diritto a percepirlo[2].
Altri, seppur indicando che il surplus costituisce un provento da iscrivere nella voce “A5) Altri ricavi e proventi” del conto economico, riconoscono che esso è finalizzato a compensare il fatto che il credito di imposta è riscuotibile in 5 anni[3].
Molto significativo a questo proposito è un passo del contributo di Enrico Zanetti[4] che, con riferimento allo sconto in fattura, ritiene che «Dal punto di vista dell’impresa fornitrice (che, con lo sconto sul corrispettivo, anticipa finanziariamente al beneficiario il contributo che gli viene riconosciuto dall’Erario), il surplus di credito di imposta spettante, rispetto allo sconto applicato sul corrispettivo, dovrebbe costituire un provento di natura finanziaria con cui lo Stato compensa appunto lo svolgimento di questa funzione “anticipatoria”, sul piano finanziario, del contributo.
In quanto tale, il surplus di credito di imposta spettante andrebbe ricondotto alla voce C.16 del Conto Economico, piuttosto che alla voce A.5.»
Meno convincente è, invece, il prosieguo, nel quale si giunge alla conclusione che tale provento finanziario sarebbe di competenza economica (e fiscale) dell’esercizio nel quale l’impresa fornitrice rileva i ricavi relativi all’intervento edilizio, a nulla rilevando l’orizzonte quinquennale, meramente finanziario, di utilizzo del credito di imposta in compensazione. In particolare, non convince la motivazione di tale affermazione. Infatti, con riferimento alla cessione del credito, prosegue dicendo che «Dal punto di vista dell’impresa che acquista il credito di imposta, l’operazione collegata all’opzione, che trasforma la detrazione “edilizia” spettante all’impresa beneficiaria nel credito di imposta di pari ammontare, ha una valenza prettamente finanziaria.
L’impresa cessionaria, infatti, si rende, nella sostanza, disponibile ad anticipare all’impresa beneficiaria cedente una somma liquida a fronte dell’acquisto di un credito certo (il debitore è lo Stato), ma la cui liquidità ed esigibilità è frazionata per quote annuali su un orizzonte di 5 o 10 anni.
La natura sostanziale dell’operazione implica che, laddove il corrispettivo di acquisto del credito di imposta sia pattuito per un ammontare inferiore al valore nominale del credito medesimo, tale differenza costituisca il provento finanziario dell’operazione.»
Dopo questa più che condivisibile spiegazione, sostiene che la natura contabile dell’operazione dipenderebbe “dalla modalità di contabilizzazione dell’acquisto”[5].
Evidenzia poi (e questa potrebbe essere “l’altra modalità di contabilizzazione”) che la valutazione dei crediti deve essere fatta al costo ammortizzato: «Va tuttavia sottolineato che, anche nel contesto dei principi contabili nazionali, così come di quelli internazionali, la contabilizzazione segue “il criterio del costo ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale e […] del valore di presumibile realizzo”.
Nel caso di un credito vantato nei confronti dell’Erario, è pacifico che il valore nominale possa coincidere con il valore di presumibile realizzo. […]
La circostanza però che il credito vantato nei confronti dello Stato risulti recuperabile su un ampio arco temporale (5 o 10 anni) legittima l’impresa cessionaria a iscrivere detto credito a un valore che esprima l’attualizzazione, sulla base del tasso di interesse di mercato, dei flussi di incasso. In questo caso, tuttavia, l’impresa cessionaria, in ciascuno degli anni in cui utilizza poi in compensazione una quota del credito di imposta acquisito, si ritrova inevitabilmente a dover rilevare una differenza tra l’ammontare di credito di imposta fruito in compensazione (che rimane collegato al valore nominale del credito) e il corrispondente ammontare di valore di quel credito iscritto nell’attivo che viene “scaricato” in contropartita del suo utilizzo in compensazione. […]»
Non viene spiegato quando, secondo l’autore, si dovrebbe utilizzare la prima e quando la seconda “modalità di contabilizzazione”, ma, dalle successive esemplificazioni, sembrerebbe che la distinzione riguardi il soggetto cessionario del credito, ovvero se si tratta di un ente creditizio, o altra tipologia d’impresa[6].
Posto che concordiamo pienamente sulla natura finanziaria della differenza fra il valore nominale del credito d’imposta e lo sconto operato dal fornitore (o il prezzo pagato per il suo acquisto), abbiamo alcune perplessità – come detto - con riferimento alla competenza economica del provento finanziario qualora non venga applicato il criterio del costo ammortizzato.
A nostro avviso, occorre in primo luogo stabilire se l’impresa che acquisisce il credito d’imposta applichi o meno tale criterio e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di un intermediario finanziario o di un’impresa commerciale. Infatti, il codice civile prescrive, per le società che redigono il bilancio in forma ordinaria, l’obbligo di valutare i crediti al costo ammortizzato, a prescindere sia dalla natura del credito che dall’attività esercitata da parte della società stessa.
In secondo luogo, occorre capire se ha senso fare una distinzione fra le due fattispecie dello sconto in fattura e della cessione del credito, oppure se il loro trattamento contabile sia sostanzialmente uguale. A tale scopo si potrebbero formulare due ipotesi.
Secondo la prima ipotesi il credito d’imposta costituisce un mezzo di pagamento del credito commerciale che il fornitore vanta nei confronti del soggetto beneficiario della detrazione. Siccome il credito d’imposta è riscuotibile in 5 anni, trattasi di condizioni di pagamento sostanzialmente difformi da quelli normalmente praticati sul mercato. A fronte di questa dilazione di pagamento ultrannuale, il fornitore chiede il pagamento di un importo superiore, pari al 110% della spesa sostenuta dal cliente. Supponendo che quest’ultima sia pari a 100, il credito commerciale diventerebbe pari a 110 e ad esso corrisponderebbero 100 di ricavi più IVA e 10 di proventi finanziari. Visto in altri termini, lo “sconto”[7] di 100 rappresenta il valore attuale dei flussi finanziari derivanti dall’incasso del credito d’imposta in 5 rate annuali da 22.
La seconda ipotesi, invece, scompone l’operazione relativa allo sconto sul corrispettivo in tre distinti accadimenti. Il primo è la vendita del bene o la prestazione del servizio, con conseguente rilevazione di un credito commerciale (d’importo pari al prezzo concordato oltre IVA) verso il beneficiario della detrazione. Il secondo riguarda l’acquisto da parte del fornitore del credito d’imposta ad un prezzo pari al prezzo pattuito per la compravendita, oltre IVA. Il terzo consiste nella compensazione da parte del fornitore fra il credito per i lavori eseguiti e il debito per l’acquisto del credito d’imposta. In questo senso le due fattispecie di cui sopra andrebbero a confluire solo nella seconda, ovvero in tutti e due i casi si tratterebbe di una cessione del credito d’imposta.
Vediamo ora come le ipotesi sopra formulate si riflettono sul trattamento contabile del surplus del 10%, distinguendo fra imprese che applicano e imprese che non applicano il criterio del costo ammortizzato.
Se consideriamo il surplus come un provento finanziario conseguito a fronte della concessione della dilazione in 5 anni del pagamento del credito commerciale e l’impresa applica il criterio del costo ammortizzato, occorre riferirsi al par. 44 dell’OIC 15, secondo cui «I crediti commerciali con scadenza oltre i 12 mesi dal momento della rilevazione iniziale, senza corresponsione di interessi, o con interessi significativamente diversi dai tassi di interesse di mercato, ed i relativi ricavi, si rilevano inizialmente al valore determinato attualizzando i flussi finanziari futuri al tasso di interesse di mercato. La differenza tra il valore di rilevazione iniziale del credito così determinato e il valore a termine deve essere rilevata a conto economico come provento finanziario lungo la durata del credito utilizzando il criterio del tasso di interesse effettivo.»
Pertanto, il provento finanziario andrebbe ripartito lungo i 5 anni attraverso la tecnica del costo ammortizzato.
Se, invece, l’impresa non applica il costo ammortizzato, si tratta di un fenomeno ben noto in dottrina sotto il nome di “scorporo degli interessi impliciti”. A questo proposito la precedente versione (2014) dell’OIC 15 prevedeva quanto segue:
«23. I crediti che si originano dallo scambio di merci, prodotti e servizi sono valori numerari e costituiscono la contropartita dei relativi ricavi. La disponibilità di denaro a termine comporta un immobilizzo finanziario; pertanto, le condizioni di pagamento hanno un effetto diretto sull'ammontare dei ricavi che originano il credito. Se i termini di pagamento sono lunghi, il mantenimento di condizioni finanziarie fisiologiche comporta la necessità di ottenere un corrispettivo, ossia un interesse, per il periodo di indisponibilità del numerario. Tale interesse può essere chiaramente esplicitato ovvero deve ritenersi implicito nel ricavo e quindi nel credito. Nel secondo caso, se rilevante, si rende necessario scorporare dal prezzo un interesse appropriato, cioè il corrispettivo finanziario.
24. I crediti commerciali con scadenza oltre i 12 mesi dal momento della rilevazione iniziale, senza corresponsione di interessi, o con interessi irragionevolmente bassi, si rilevano inizialmente al valore nominale e cioè in base all’effettivo diritto di credito che essi rappresentano. In contropartita la componente reddituale è rilevata distintamente tra:
- il ricavo relativo alla vendita del bene a pronti o alla prestazione di servizi;
- gli interessi attivi impliciti relativi alla dilazione di pagamento.
L’ammontare del ricavo di vendita o della prestazione di servizi è rappresentato dal corrispettivo a pronti del bene/servizio, pari al prezzo di mercato con pagamento a breve termine del bene/servizio. Se non è possibile determinare il prezzo di mercato del bene a breve termine, il ricavo è determinato attualizzando il credito ad un appropriato tasso di interesse (cfr. paragrafo 27). L’ammontare degli interessi attivi impliciti si determina per differenza tra il valore nominale del credito e l’ammontare del corrispettivo a pronti e si rileva inizialmente tra i risconti passivi.
Gli interessi attivi sono considerati di competenza dello o degli esercizi successivi, sino alla scadenza del credito e sono riconosciuti contabilmente sulla durata del credito. L'interesse da rilevarsi in ciascun periodo amministrativo o frazione in cui dura il credito è quello maturato in tale periodo. Tale differenza è ripartita in modo tale che l'interesse venga riconosciuto ad un tasso costante sul credito residuo finché non sia interamente incassato.»
Non essendo cambiato nulla con riferimento alla valutazione dei crediti da parte delle imprese che non adottano il costo ammortizzato, si ritiene che il passo citato possa costituire tutt’ora un valido riferimento.
L’attuale OIC 15, invece, fornisce soltanto le seguenti indicazioni: «58. I costi di transazione iniziali, rilevati tra i risconti attivi, sono ammortizzati a quote costanti lungo la durata del credito a rettifica degli interessi attivi nominali.» Si può ritenere, però, che un analogo criterio di ripartizione valga anche per i proventi iniziali, che di conseguenza andrebbero iscritti fra i risconti passivi e ripartiti a quote costanti lungo la durata del credito.
In definitiva, nella prima ipotesi, il provento finanziario deve essere ripartito fra gli esercizi di durata del credito, indipendentemente dall’utilizzo o meno del criterio del costo ammortizzato.
In questo caso si configura una cessione del credito d’imposta anche quando il beneficiario della detrazione opta per lo sconto sul corrispettivo, che quindi costituirebbe il prezzo che il fornitore paga per acquistare detto credito.
Se il fornitore è tenuto a redigere il bilancio in forma ordinaria, allora deve obbligatoriamente valutare il credito acquistato con il criterio del costo ammortizzato, indipendentemente dall’attività da esso esercitata. Vale pertanto quanto indicato da Enrico Zanetti con riferimento alla rilevazione del credito acquistato da un intermediario finanziario.
Se, invece, il fornitore non applica il costo ammortizzato, siccome la fattispecie non è trattata dagli OIC, occorre riferirsi ad eventuali casi analoghi contenuti negli altri principi contabili e, in mancanza, il redattore del bilancio è investito direttamente della responsabilità di applicare i principi generali di redazione del bilancio dettati dal codice civile ed in particolare, nel caso specifico, le seguenti disposizioni:
È opportuno notare che va preliminarmente applicato il principio della rappresentazione sostanziale delle operazioni aziendali, sancito dall’art. 2423-bis c.1 n. 1-bis, così come interpretato dall’ultima versione dell’OIC 11. Ciò significa che, in base alle clausole contrattuali che regolano la cessione di tale credito, occorrerà rappresentare in bilancio l’operazione secondo la sostanza economica voluta dalle parti.
Sotto questo aspetto, occorre in primo luogo distinguere il caso in cui il beneficiario trasforma la detrazione in credito d’imposta e lo utilizza per pagare al fornitore l’opera edilizia (il c.d. “sconto in fattura”), da quello in cui il beneficiario cede a terzi (terzi rispetto al contratto di compravendita col fornitore) il credito, allo scopo di ricevere il contante necessario per saldare il prezzo del contratto di compravendita.
Nella sostanza, nel primo caso si è in presenza di un solo contratto: quello di compravendita, mentre la cessione del credito rappresenta semplicemente la controprestazione della prestazione resa dal fornitore. Nel secondo, invece, i contratti sono due: un normale contratto di compravendita con pagamento in contanti, o, comunque, con condizioni di pagamento “di mercato” ed un contratto di “prestito”, nel quale il beneficiario, a fronte di una somma di denaro ricevuta, cede un credito riscuotibile in un certo numero di anni; la natura e la sostanza del contratto non cambia al mutare della qualifica del soggetto che eroga il finanziamento e riceve il credito d’imposta.
Una volta così individuata la sostanza dell’operazione voluta dalle parti, occorre applicare correttamente i principi contabili per la sua rappresentazione nei bilanci delle imprese che partecipano a tale operazione.
Supponendo che il beneficiario del provvedimento sia un soggetto privato consumatore finale, la rappresentazione dell’operazione nel bilancio del cessionario del credito deve avvenire secondo le indicazioni contenute nell’articolo 2426, interpretato dal documento OIC 15, che prevedono l’iscrizione dei crediti con scadenza ultrannuale mediante l’utilizzo del criterio del costo ammortizzato per tutte le imprese in contabilità ordinaria, indipendentemente dal fatto che si tratti di crediti finanziari o commerciali. Per le imprese che possono derogare a tale regola, poiché redigono il bilancio in forma abbreviata, l’iscrizione dei crediti con scadenza ultrannuale deve avvenire al valor nominale[8], ma, se contengono interessi attivi impliciti, come nella fattispecie ipotizzata, devono rinviare al futuro le quote di interessi non di competenza, attraverso la tecnica dei risconti passivi.
In conclusione, riteniamo che in tutti i casi la differenza tra il valore nominale del credito d’imposta ceduto e quello del prezzo pattuito per l’opera edilizia, oppure quello della somma liquida data al beneficiario, rappresenta un provento finanziario, che, per il principio di competenza economica, interpretato nella fattispecie dall’OIC 15, deve comunque essere imputato agli esercizi nei quali tale credito viene utilizzato.
Parrebbe che, dato il principio di derivazione rafforzata, lo stesso criterio dovrebbe essere adottato dal punto di vista tributario.
Per completezza, esaminiamo l’ipotesi in cui il cessionario del credito lo ceda a sua volta a terzi, allo scopo di evidenziare il trattamento contabile dell’operazione e la sua iscrizione nel bilancio del cedente. Anche in questo caso è prevedibile che il credito venga ceduto ad un importo inferiore al suo valore nominale, generando così un componente negativo di reddito. Occorre pertanto stabilire quale sia la competenza economica di detto componente. Secondo la maggioranza dei commentatori tale costo è interamente di competenza dell’esercizio in cui avviene la cessione.
Consideriamo separatamente l’ipotesi in cui il cedente non adotti il criterio del costo ammortizzato da quella nel quale lo adotti.
Nel primo caso il cedente avrà in contabilità il credito iscritto al valore nominale con contestuale rilevazione di un componente positivo di reddito, da riscontare a fine esercizio. Al momento della cessione, supponendo che avvenga nell’esercizio successivo, il cedente dovrà ovviamente stornare il credito d’imposta ed il risconto passivo. A seconda della differenza fra il credito al netto del risconto passivo e l’entrata in banca, dovrà rilevare un componente di reddito negativo o positivo. Negativo se l’entrata di banca è inferiore, positivo in caso contrario.
Supponiamo che il valore nominale del credito d’imposta sia pari a 110 e che il risconto passivo sia pari a 10. Se la cessione avviene ad un prezzo di 98, la scrittura sarà la seguente:
….. | …. | Risconti passivi | 10 |
|
….. | …. | Banca | 98 |
|
….. | …. | Oneri finanziari | 2 |
|
….. | …. | Crediti d’imposta |
| 110 |
Nel caso in cui, invece, l’impresa adotti il criterio del costo ammortizzato, il cedente avrà il credito iscritto in contabilità ad un valore inferiore a quello nominale. Pertanto, la cessione del credito provocherà l’emersione di un componente negativo o positivo di reddito a seconda che l’entrata di banca sia inferiore o superiore al valore contabile del credito.
A questo punto possiamo concordare con l’opinione prevalente, secondo la quale in questo caso, a differenza degli altri in precedenza trattati, il componente di reddito positivo o negativo deve essere considerato interamente di competenza dell’esercizio nel quale è avvenuta la cessione del credito. La motivazione, però, va ricercata nel fatto che, avendo il cedente registrato l’operazione attraverso il criterio del costo ammortizzato, oppure secondo le prescrizioni dell’OIC 15, utilizzando la categoria dei risconti passivi, ha già reso il valore contabile pari al “valore attualizzato” del credito, che quindi non comporta più alcuna necessità di tener conto del fattore temporale nella successiva cessione.
[1] Inteso come il corrispettivo più l’IVA dovuti al fornitore.
[2] Si veda Fiammelli Matilde, Superbonus: gli effetti contabili dello sconto in fattura sul fornitore, www.fiscoetasse.com, 16 ottobre 2020:
«Partendo dal presupposto che l’obiettivo di tale alternativa alla detrazione è quella di rilanciare l’economia nei settori dove è più in crisi, covid-19 o meno, il surplus […] va inteso come:
Non si tratta di “sopravvenienza attiva” in quanto non connessa a componenti relativi ad esercizi precedenti, non derivanti da errori commessi in passato (OIC n. 29). Non si tratta nemmeno di ricavi connessi con la produzione di beni o servizi (gestione caratteristica) in quanto non correlati effettivamente al valore delle prestazioni rese dal fornitore. Il loro valore è infatti un derivato di una norma fiscale.
Si tratterebbe di “contributi in conto esercizio” (OIC 12) i quali, sulla base dei principi contabili sono definiti come: aiuti destinati a fronteggiare le esigenze di gestione, cioè rivolti alla copertura di costi o all’integrazione dei ricavi. Quest’ultimo concetto ben si adatta all’obiettivo del superbonus di voler far ripartire l’economia.
Tali contributi sono tassabili e quindi rilevati nel momento in cui è sorto con assoluta certezza il diritto a percepirli.
A rigor di logica si ritiene che tale momento debba essere quello della presentazione, da parte del beneficiario della detrazione […] della comunicazione telematica di opzione.»
[3] Si cfr. Mario Ravaccia, Superbonus 110%: gli effetti contabili dello sconto in fattura, Quotidiano IPSOA, www.ipsoa.it, 15 ottobre 2020, secondo cui «All’atto della riduzione del credito verso il cliente, il fornitore registrerà un credito di imposta pari al 110% del corrispettivo ceduto (i.e. 33.000) di cui 3.000 euro quale provento classificabile tra gli “Altri ricavi e proventi”, compreso nella voce A5 del conto economico.
Tale beneficio è assimilabile per certi versi a un contributo in conto esercizio in quanto integra i ricavi dell’attività caratteristica o delle attività accessorie diverse da quella finanziaria (cfr. principio OIC 12, paragrafo 56 lettera f).»
Tale affermazione, però, sembrerebbe in contraddizione con quella successiva, secondo cui «posto che l’intento sotteso alla fissazione dell’aliquota del 110% è quello di permettere il trasferimento del beneficio con uno sconto finalizzato a remunerare l’onere finanziario di attualizzazione del beneficio derivante dal recupero del credito di imposta in 5 anni, tale fine verrebbe certamente raggiunto nell’ipotesi di cessione della detrazione da parte del contribuente a banche e intermediari finanziari - ad un prezzo per esempio di 100 a fronte di un credito di imposta pari a 110 - ma potrebbe dirsi raggiunto se, secondo la soluzione indicata nel provvedimento n. 283847, il beneficio fosse ceduto al fornitore sotto forma di sconto.»
In tal senso anche Fabrizio Bava e Alain Devalle, Scritture contabili di sconto in fattura e cessione per il superbonus da individuare, Eutekne.Info, 12 ottobre 2020:
«Nel caso di opzione per lo sconto in fattura da parte del fornitore è molto probabile che, soprattutto nel caso di piccole e medie imprese, quest’ultimo valuterà la possibilità di cedere il credito d’imposta a un istituto di credito, al fine di ottenere liquidità immediata. Naturalmente, in caso di cessione di un credito pari a 110, la banca riconoscerà un importo inferiore, pari ad esempio a 100.
Il prezzo di acquisto del credito sarà inferiore sia perché l’istituto di credito deve ottenere un beneficio economico dall’acquisto, sia perché il credito è utilizzabile soltanto un quinto all’anno, pertanto deve essere scontato l’effetto finanziario. […]
Il fornitore emetterà la fattura per il servizio al cliente, ad esempio pari a 100. Se accetta di concedere lo sconto sul corrispettivo, ad esempio, pari all’80%, in contabilità il credito verso il cliente sarà chiuso in avere per l’importo dell’80%, mentre il residuo 20% sarà chiuso al momento dell’incasso. In contropartita in dare si origina il credito d’imposta.
Tale credito, però, sarà pari al 110% dello sconto concesso, pertanto pari a 88 (80 più il 10%). Il maggiore credito d’imposta rispetto allo sconto concesso originerà una rilevazione in avere nella voce “A5) Altri ricavi e proventi” di Conto economico.»
[4] Si cfr. Enrico Zanetti, Gli aspetti contabili e fiscali per le imprese, in Quaderni Eutekne n. 155 “Detrazioni per gli interventi «edilizi» e superbonus 110%”, cap. XIV, pag. 556 e ss.
[5] «Ove l’acquisto venga contabilizzato evidenziando il credito di imposta al suo valore nominale, con contropartita il debito verso l’impresa beneficiaria cedente per il (minor) corrispettivo pattuito, l’emersione contabile del provento finanziario collegato all’acquisto “sotto la pari” del credito di imposta sarebbe contestuale al perfezionamento dell’operazione.
In questo caso, la competenza economica del provento finanziario (e la sua conseguente imponibilità fiscale per derivazione) coinciderebbe con il momento di perfezionamento tra le parti della compravendita del credito di imposta, senza possibilità di ripartire tale componente lungo l’arco temporale in cui è ripartita la fruibilità in compensazione, per quote costanti, del credito di imposta medesimo (5 o 10 esercizi).
Ciò in quanto l’operazione non costituisce un “finanziamento di durata” che produce risultati economici di competenza di ciascun esercizio di durata del finanziamento, bensì una “puntuativa compravendita” che produce risultati economici interamente di competenza dell’esercizio in cui si perfeziona la compravendita che li origina. Tale convinzione deriverebbe anche dalla risposta a interpello dell’Agenzia delle Entrate 15.4.2020 n. 105, commentata da Latorraca S. “Imponibile la cessione dell’ecobonus a un valore inferiore al nominale”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 16.4.2020.
Secondo l’Agenzia delle entrate, infatti, «ai sensi dell'articolo 88 del TUIR, la sopravvenienza attiva pari alla differenza tra valore nominale e costo di acquisto del credito concorrerà alla formazione del reddito imponibile nell'esercizio in cui il credito è acquisito».
[6] «Ciò implica, in particolar modo quando l’impresa cessionaria è una banca o altro intermediario finanziario, che acquisisce in modo sistematico crediti di imposta, nell’ambito dell’esercizio professionale dell’attività creditizia, che l’iscrizione nell’attivo del credito d’imposta possa avvenire sostanzialmente per un valore pari al suo costo di acquisto, il quale esprime appunto il valore che le parti hanno attribuito al credito di imposta medesimo, attualizzando il valore delle sue rate annuali di utilizzo sulla base di un tasso di interesse in linea con quello praticato dal mercato per questo tipo di anticipazioni finanziarie.
Ove il credito di imposta acquisito venga così contabilizzato, nel pieno rispetto di quanto consentito dai principi contabili nazionali e internazionali, è evidente che nessun provento finanziario emerge in sede di contabilizzazione dell’acquisto del credito di imposta, perché il valore di iscrizione del credito e il corrispettivo corrisposto per esso vengono a coincidere». Da ciò deriverebbe un corrispondente trattamento tributario, secondo il principio di derivazione di cui all’art. 83 del TUIR.
[7] In origine inteso come “riduzione del prezzo da pagare” da parte del beneficiario.
[8] A questo proposito giova ricordare una questione di grande rilievo scientifico, che risale ormai a circa un secolo fa, riguardante il trattamento contabile dei crediti e debiti di finanziamento. Come è noto, il fondatore del sistema contabile del reddito, che ha governato e governa tuttora le modalità di tenuta delle scritture contabili e di redazione del bilancio d’esercizio in Italia, il Maestro Gino Zappa, sosteneva una diversa natura contabile dei crediti e dei debiti di finanziamento rispetto a quelli di regolamento (ora noti come crediti e debiti commerciali). In particolare, il Maestro sosteneva che, mentre i crediti ed i debiti di regolamento dovevano considerarsi dei valori numerari, ovvero sostituti del denaro nelle operazioni di compravendita, quelli finanziari, essendo oggetto dei rispettivi contratti di credito, dovevano considerarsi alla stregua degli altri oggetti contrattuali, per cui la concessione di un credito doveva rappresentare un costo di acquisto, mentre l’ottenimento di un prestito doveva essere considerato l’ottenimento di un ricavo, rispettivamente misurati da un’uscita e da un’entrata di denaro. Questa impostazione suscitò una diversa reazione da parte dei molti allievi di Zappa, divenuti a loro volta capiscuola di ragioneria delle più importanti università italiane. Alcuni di essi, primo fra tutti Aldo Amaduzzi, si allontanò da questa visione, istituendo la categoria contabile dei valori numerario-finanziari, che privilegiava le caratteristiche comuni dei crediti e dei debiti sia di finanziamento che di regolamento rispetto alle caratteristiche distintive individuate da Gino Zappa. L’attuale dottrina prevalente segue tutt’ora quest’ultima impostazione.
Dopo questa premessa di carattere storico-scientifico, possiamo considerare che, alla luce degli ultimi sviluppi normativi e di prassi, non si notano differenze sostanziali fra il trattamento contabile degli odierni crediti e debiti commerciali e quelli finanziari, accomunati, come detto, dall’obbligo di trattamento mediante il criterio del costo ammortizzato.
Se si vuole aderire all’impostazione originaria di Gino Zappa, il credito andrebbe iscritto al costo d’acquisto. Se, invece, si sceglie di sposare la tesi amaduzziana, il credito deve essere iscritto al valore nominale.