Il concetto di valore normale, disciplinato dall’art. 9 del D.P.R. 917/1986, rappresenta una generica astrazione che, svolgendo un ruolo antielusivo, costituisce una rappresentazione del generale divieto di abuso del diritto in ambito tributario.
Di conseguenza, risulta essere preclusa al contribuente la possibilità di conseguire vantaggi fiscali, quali il trasferimento dell'imponibile verso soggetti appartenenti al medesimo gruppo societario, attraverso un uso distorto - sebbene non in contrasto con alcuna specifica disposizione di legge - di strumenti giuridici in grado di assicurare il conseguimento di privilegi in assenza di ragioni diverse dalla mera aspettativa di tali benefici.
Pertanto, l’allontanamento dal richiamato valore normale può acquisire rilevanza quale parametro meramente indiziario e, di conseguenza, l'operazione che non tenga in alcuna considerazione i prezzi di mercato rappresenta una potenziale anomalia in grado, in assenza di riscontri opposti, di giustificare l'accertamento con la conseguente traslazione, in capo al contribuente, dell’onere di doverne dimostrare l’inconsistenza.
La Corte di Cassazione, attraverso la sentenza n. 16366/2020, giunge a questa conclusione affermando, inoltre, che gli assiomi regolatori desumibili dall'art. 9 del D.P.R. 917/1986 costituiscono delle manifestazioni concrete del principio “substance over form”, richiamato dai principi contabili nazionali (OIC 11) e internazionali (Framework 2, IASB/1989/35), così come dalle raccomandazioni dell'OCSE (BEPS) nell’ambito della pianificazione tributaria aggressiva.
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La Suprema Corte, negli ultimi anni, aveva sostenuto in alcune pronunce che il fondamento normativo per la rettifica dei corrispettivi afferenti le transazioni “domestiche” si ritroverebbe nell’art. 9 del D.P.R. 917/1986 (definizione di valore normale), il quale costituirebbe uno strumento generale di controllo dei menzionati corrispettivi.
Nella sentenza n. 17955/2013 è stato dapprima affermato che “il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo rileva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno” nel caso in cui si persegua, attraverso la determinazione di un prezzo “fuori mercato”, lo scopo di “far emergere utili presso la società del gruppo che sconta, anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione”.
Tutto ciò in quanto vengono realizzate in ambito nazionale “le medesime forme di politiche sui prezzi, attuate assai di frequente in ambito internazionale mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro valore normale, onde spostare l’imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori, godono di esenzioni fiscali e subiscono minore tassazione”.
Tuttavia, è stato successivamente sostenuto che la “specialità” della disciplina normativa del “transfer pricing estero” non ne consente una “applicazione diretta” a quello “interno o domestico”, come rappresentato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 23551/2012 e dall’Agenzia delle entrate nella circolare ministeriale n. 53/E/1999.
Il Collegio di legittimità ha, comunque, ritenuto che la menzionata normativa costituisce una clausola antielusiva “che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale”.