Non è in grado di operare la disciplina afferente al raddoppio dei termini relativamente all’Irap in quanto non si tratta di un’imposta in relazione alla quale sono disposte sanzioni penali. La legge n. 74/2000 infatti non qualifica quale reato l’evasione dell’Irap e di conseguenza, non è concessa all’amministrazione finanziaria la facoltà di effondere un avviso di accertamento oltre ai termini ordinari, in quanto il raddoppio può aver luogo esclusivamente nel caso in cui la trasgressione implichi un onere di denuncia penale, per uno dei reati disciplinati dalla legge 74/2000.
A tali conclusioni è giunta la Corte Suprema attraverso l’ordinanza n. 20435/2017 depositata in cancelleria il 25 agosto 2017.
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La dibattuta disciplina afferente il raddoppio dei termini è stata oggetto di numerosi mutamenti che hanno condotto sino all’abrogazione della disposizione medesima, con decorrenza dagli accertamenti afferenti le annualità successive al 2015. Nel precetto normativo previgente, così come nel corso del periodo transitorio, il presupposto per il raddoppio dei termini veniva originariamente confinato nell’ambito dell’identificazione di comportamenti tali da comportare l’obbligo della presentazione di una denuncia penale o, seguendo i precetti successivi, nel deposito della medesima a fronte del manifestarsi di uno dei reati tributari disciplinati dalla legge n. 74/2000.
Però i reati menzionati dalla “nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” non contemplano l’imposta regionale sulle attività produttive sebbene, nella prevalenza degli avvisi di accertamenti emanati usufruendo del raddoppio dei termini e aventi a oggetto il recupero dei tributi diretti, venivano estesi anche all’ambito Irap.
Tuttavia il menzionato contegno accertativo, a parere degli Ermellini, risulta essere illegittimo in quanto le inadempienze Irap non assumono consistenza penale e dalle medesime non può erompere alcun vincolo di denuncia penalmente rilevante.
La sentenza in commento si esprime anche in merito alla vicenda afferente alla disciplina transitoria del raddoppio termini, disciplinata in prima battuta attraverso l’art. 2 del D.Lgs. 128/2015 e in seguito mediante la Legge n. 208/2015.
A parere dei Giudici del Palazzaccio la clausola di salvaguardia introdotta con il D.Lgs. 128/2015 ma tuttavia non replicata all’interno della legge di Stabilità 2016, non si rivelerebbe soppressa dalla disciplina successiva tutelando, in buona sostanza, la sopravvivenza di numerosi e datati accertamenti emanati in carenza della denuncia penalmente rilevante in quanto divenuta obbligatoria esclusivamente in seguito ai menzionati mutamenti normativi. Però non è possibile trascurare la circostanza che la legge n. 208/2015, cronologicamente susseguente al D.Lgs. 128/2015, abbia regolamentato il medesimo argomento, ripresentando le identiche disposizioni rappresentate nel previgente decreto legislativo con la mera esclusione della clausola di salvaguardia.
L’omessa riproposizione della menzionata clausola, tuttavia, in forza del consolidato orientamento delle commissioni di merito, va letta quale sottintesa abrogazione della medesima in quanto norma successiva nel tempo che disciplina la medesima materia (lex posterior derogat legi anteriori).
Pertanto, non essendo l'IRAP un'imposta per la quale siano disciplinate sanzioni penali è evidente come, in relazione alla medesima, non possa operare la disciplina del "raddoppio dei termini" di accertamento, applicabile ratione temporis.