Speciale Pubblicato il 10/05/2021

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Locazioni commerciali e affitto di azienda il punto sul mancato pagamento dei canoni

di Avv. Piero Cesarei

La chiusura e le limitazioni imposte alle attività a causa della pandemia hanno conseguenze sul mancato pagamento del canone di locazione o affitto: il punto della giurisprudenza



La frenetica “decretazione” dell’emergenza pandemica ha introdotto al fine di ostacolare la diffusione del c.d. Coronavirus alcune “misure di contenimento” che hanno comportato profonde limitazioni delle libertà personali dei cittadini (circolazione, riunione, ecc.), oltre che interdire completamente o parzialmente le attività economiche non espressamente consentite.

Il divieto di apertura ha comportato per molti esercizi commerciali una significativa crisi finanziaria con la conseguente difficoltà a fare fronte alle obbligazioni contratte, prima fra tutte quella del pagamento del canone di locazione dei locali commerciali o dell’affitto dell’azienda.

Al di là di una auspicabile soluzione pattizia del problema, mediante un accordo tra le parti che possa prevedere sospensioni, riduzioni temporanee o dilazioni nel pagamento, il sistema offre alcune indicazioni per risolvere le controversie che presumibilmente in futuro insorgeranno qualora il locatore di un immobile commerciale o l’affittuario di un’azienda omettano di corrispondere il canone eccependo che l’inadempimento è dovuto alle conseguenze della pandemia o delle restrizioni stabilite a seguito delle misure di contenimento.

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Il mancato pagamento del canone per impossibilità sopravvenuta della prestazione

In base all’art. 1218 c. c.  “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Continua il successivo art. 1223 c.c. precisando che il danno risarcibile è costituito dalla “perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.

La prestazione deve essere adempiuta esattamente, dunque in maniera fedele e puntuale, e così una prestazione solo parziale o incompleta non deve ritenersi liberatoria.

Unica esimente per il debitore è la circostanza che l’inadempimento sia derivato da una “causa a lui non imputabile”.

In particolare, la liberazione per impossibilità della prestazione avviene quando l’ostacolo all’adempimento sopravviene successivamente all’obbligazione non è superabile con uno sforzo normale da parte del debitore che rientri nella diligenza da questo dovuta.

La Giurisprudenza ha precisato che “al fine di esonerarsi dalle conseguenze dell'inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l'inadempimento è stato determinato da causa a sé non imputabile (art. 1218 c.c.), la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell'impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che, da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di poter adempiere, e, d'altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo” (Cass. n. 15712/2002).

L’impossibilità oltre che un fondamento naturale può anche essere determinata da un fattore giuridico quando sopravvengano successivamente all’obbligazione provvedimenti legislativi o di carattere amministrativo che ne impediscano l’esecuzione (c.d. factum principis).

Se la prestazione diventa del tutto impossibile per una causa non imputabile al debitore l’obbligazione si estingue (art. 1256 c.c.), ma se l’impossibilità è solo parziale il debitore si libera eseguendo quanto rimasto possibile (art. 1258 c.c.).

In via generale, debitore e creditore hanno l’obbligo di comportarsi “secondo le regole della correttezza” (art. 1175 c.c.), che sostanzialmente equivalgono al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).

La buona fede rappresenta un vero e proprio dovere giuridico che secondo la Corte di Cassazione deve “ritenersi violato non solo nel caso in cui una parte abbia agito con il doloso proposito di recare pregiudizio all'altra, ma anche qualora il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale” (Cass. n 14726/2002).

In tale contesto normativo la decretazione dell’emergenza pandemica ha inserito la norma dell’art. 3, comma 6 bis secondo il quale il rispetto delle misure di contenimento “è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

L’innovazione tuttavia non appare determinante.

Il disposto, infatti, ha carattere del tutto generale, limitandosi a prevedere il solo obbligo rivolto all’interprete di valutare ai fini della responsabilità del debitore le misure di contenimento, senza stabilire che queste siano considerate in automatico esimenti che giustificano l’inadempimento del debitore.

Poiché tuttavia in vigenza o meno della norma in esame la valutazione del nesso causale delle citate misure di contenimento sulla possibilità di adempiere viene effettuata dal giudice, secondo il suo apprezzamento libero e prudente, il contenuto della norma si risolve soltanto nell’obbligo per il magistrato di motivare adeguatamente la sentenza, esprimendo la valutazione e l’incidenza delle stesse misure nella definizione del giudizio.

 Quello di locazione, così come l’affitto d’azienda, è un contratto con prestazioni corrispettive ad esecuzione continuativa o periodica, in cui derivano obbligazioni da ambedue le parti, che non si esauriscono in un solo momento ma si protraggono con continuità nel tempo.

Per questo tipo di contratti l’impossibilità sopravvenuta per una parte di adempiere il proprio obbligo comporta il diritto per l’altra di risolvere il contratto, salvo il caso di impossibilità parziale che consente una riduzione della controprestazione (artt. 1463 c.c. e 1464 c.c.).

 Non può negarsi che la situazione di maggior danno sia vissuta da tutte quelle attività per le quali è stata prevista la chiusura totale e che non rientrano nei famigerati codici ATECO contenuti negli allegati ai provvedimenti legislativi dell’emergenza pandemica, ma è altrettanto vero che anche le attività consentite hanno subito un forte ridimensionamento in termini economici.

È indubbio che ove sia disposta la chiusura dell’attività si abbia come prima conseguenza l’impossibilità di utilizzare il locale commerciale o il complesso dei beni aziendali affittati per tutto il periodo della chiusura forzosa.

Tuttavia, anche una chiusura parziale ovvero una limitazione all’esercizio dell’attività (si pensi ad esempio una fabbrica che mantenere le distanze di sicurezza tra i propri lavoratori deve diminuire drasticamente la produzione o un bar che possa solo effettuare attività di takeaway senza accogliere il pubblico) può comportare significative diminuzioni del volume d’affari.

Le misure di contenimento, in particolare, a ragione possono essere considerate un impedimento di natura giuridica (factum principis) che rendono impossibile l’obbligo per il locatore di rendere disponibile per il conduttore l’oggetto del contratto o per l’affittuario l’utilizzo dei beni aziendali.

In ogni caso, in virtù dei citati principi generali di correttezza e buona fede dovranno essere prese in considerazione solo quelle circostanze nelle quali l’evento pandemico in sé o le conseguenti misure di contenimento abbiano realmente inciso sul rapporto contrattuale e non quelle in cui esse vengano utilizzate strumentalmente al solo fine di evitare il pagamento comunque dovuto del canone.

Un primo rimedio per le locazioni commerciali è sicuramente quello indicato dall’art. 27, ult. co.  L. n. 392 del 1978 per cui “indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata”.

Così è del tutto ragionevole credere che in generale le conseguenze dell’infezione pandemica possano in alcuni casi rappresentare i “gravi motivi” intesi dalla Giurisprudenza come fatti estranei alla volontà del conduttore, “imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto tali da rendere oltremodo gravosa la sua prosecuzione” (Cass. n. 122911/2014).

Tale ipotesi, tuttavia, è indubbiamente “estrema” poiché comporta la cessazione definitiva del contratto e quindi non si adatta ai casi in cui vi sia l’intenzione da parte del conduttore di continuare il rapporto una volta superata l’emergenza.

Più opportuno appare il richiamo alle norme relative all’impossibilità sopravvenuta della prestazione, le quali peraltro sono applicabili anche ai contratti d’affitto d’azienda.

Soccorre in tal senso una decisione della Suprema Corte, dettata per l’ipotesi particolare di impossibilità di disporre dell’immobile a causa di un’ordinanza amministrativa di sgombro per un evento sismico ma che sancisce un principio ragionevolmente estensibile in questa sede, secondo cui “qualora per fatto non imputabile alle parti (nella specie: calamità naturale con conseguente inagibilità dell'immobile oggetto della locazione) vi sia impossibilità, per il conduttore, di godere l'immobile cessa, per il conduttore, l'obbligo di pagamento del canone” (Cass. n. 17844/2007).

Ferma la circostanza che le misure di contenimento là dove non permettono l’esercizio di un’attività rendono impossibile per il conduttore usufruire dell’immobile locato o all’affittuario dell’azienda affittata e gli consentono nei casi più gravi a richiedere la risoluzione, è anche vero che egli sia legittimato a richiedere ai sensi dell’art. 1464 c.c. una riduzione del canone a causa dello squilibrio tra l’obbligazione del conduttore e quella del locatore o del titolare dell’azienda, i quali non sono almeno temporaneamente in grado di rendere l’immobile disponibile all’uso per il quale è stato locato.

Si deve precisare che, in ogni caso, il conduttore non ha alcun diritto di procedere unilateralmente all’autoriduzione del canone, che costituirebbe un fatto “arbitrario e illegittimo”, poiché è devoluto esclusivamente al giudice valutare l’importanza dello squilibrio delle prestazioni tra i contraenti (Cass. n. 26291/2007).

La soluzione dell’impossibilità parziale e della conseguente riduzione anche temporanea del canone parrebbe dunque la più aderente alle circostanze in considerazione della provvisorietà delle misure di contenimento, rispetto a soluzioni più drastiche della risoluzione del rapporto per impossibilità assoluta (qual è ad esempio per le locazioni commerciali quella dell’art. 27, ult. co., L. n. 392 del 1978).

Essa, inoltre, solleva meno problematiche riguardo all’accertamento del nesso causale tra l’impossibilità della prestazione e l’evento causale, poiché il blocco delle attività derivante dalle norme emergenziali è fatto oggettivo.

Maggiori problemi interpretativi vengono suscitati per quelle attività il cui esercizio è consentito in maniera ridotta o addirittura è rimasto libero.

Per queste è meno agevole l’accertamento del nesso causale tra l’impossibilità della prestazione gli effetti della pandemia, non essendo possibile uno stretto riferimento alle misure interdittive previste, che, comunque, rimane sempre rimesso al prudente apprezzamento del giudice, secondo quanto previsto dall’art. 116, secondo comma c.p.c. 

In generale, la soluzione più ragionevole potrebbe essere quella di arrivare concordemente tra le parti ad una riduzione pattizia del canone sino ad arrivare, in casi particolari, alla sospensione dell’efficacia del contratto e solo nelle ipotesi più gravi alla risoluzione del rapporto, conformemente al citato orientamento della Suprema corte secondo la quale “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione produce la liberazione del debitore solo se consiste in un impedimento oggettivo, assoluto e definitivo, mentre la mera difficoltà dell'adempimento o l'impossibilità temporanea della prestazione producono soltanto la sospensione del contratto” (Cass. n. 794/1979).

Su questa strada, la Corte di Cassazione (Relazione n. 56 del 8.7.2020 - Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale), ha insistito sull’importanza dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, ex artt. 1175 e 1375 c.c., affermando che alle parti “sarebbe imposto di rendersi disponibili alla modificazione del contratto, allorché la parte interessata a mantenere in essere un rapporto in senso aderente alla concreta realtà del mercato inviti l’altra a rinegoziare”.

Plausibile, per altri aspetti, sembra ugualmente il riferimento alla disciplina dell’eccessiva onerosità di cui all’art. 1467 c.c. secondo cui la parte la cui prestazione è diventata eccessivamente onerosa per avvenimenti straordinari ed imprevedibili ha diritto di chiedere la risoluzione del rapporto. L’altra parte tuttavia, se vuole evitare la risoluzione può offrire di modificare equamente le condizioni del contratto, con riferimento al mutato rapporto di congruità del canone di locazione rispetto ai periodi “immuni”.

Questa soluzione sconta la difficoltà di individuare e provare in maniera certa il nesso di causalità tra le conseguenze della pandemia ed il citato rapporto di congruità del canone.

A differenza dell’ipotesi dell’impossibilità sopravvenuta, che è un concetto qualitativo per la cui affermazione, al di là del valore, si tratta di stabilire esclusivamente se la prestazione sia oggettivamente possibile o no, l’accertamento dell’eccessiva onerosità implica una valutazione quantitativa di natura economica al fine di accertare se l’obbligazione contrattuale è diventata più onerosa rispetto al tempo in cui è stato stretto il vincolo contrattuale.

Così, è demandato all’interprete un raffronto comparativo tra il valore delle prestazioni al tempo in cui sono sorte rispetto a quello in cui esse devono eseguirsi (Cass. n. 5302/1998).

La pandemia e le misure di contenimento potrebbero quindi in astratto configurare gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili sì da invocare il richiamo alle norme previste in tema di eccessiva onerosità della prestazione ed i relativi rimedi.

A ben vedere, tuttavia, il ricorso a tale fattispecie appare in concreto meno agevole rispetto a quello previsto per l’impossibilità sopravvenuta.

Sul punto, la citata relazione n. 56, specifica che, in caso di mancata adesione all’invito di rinegoziare il canone di locazione, potrebbe aprirsi al conduttore la possibilità di agire ex art. 2932 c.c. per ottenere una pronuncia costitutiva dell’obbligo di rinegoziare il contratto di locazione. In questo caso il Giudice dovrà verificare se la richiesta del ricorrente/conduttore sia equa, ovvero sproporzionata al mancato godimento del bene nel periodo di chiusura forzata dell’attività e/o al calo di fatturato e ai maggiori costi da sostenere.

Infatti, in tal caso la prestazione rimane in ogni caso possibile con la conseguenza che il debitore è liberato solo se dimostra che l’adempimento può avvenire esclusivamente con mezzi straordinari ed anomali rispetto al periodo in cui essa è sorta, a causa dell’infezione da Covid 19 o dei provvedimenti assunti al fine di limitarne gli effetti. Fornire la dimostrazione di questa circostanza, tuttavia, in concreto è sicuramente più arduo per il debitore rispetto all’evidenza dell’impossibilità anche parziale della prestazione.

In merito la giurisprudenza, per ora solo di merito, è ormai costante nel prevedere che il rispetto delle norme di contenimento costituisce solo astratta causa di forza maggiore, la cui incidenza nel caso concreto deve essere dimostrata dal conduttore (Trib. Macerata, 28.10.2020), laddove nessuna norma, neanche di carattere emergenziale, ha affermato un vero e proprio diritto alla sospensione del pagamento del canone di locazione (Trib. Pordenone, 8.7.2020).

Infatti, il Giudice non può intervenire per riequilibrare le reciproche obbligazioni poiché  il contratto ha forza di legge tra le parti e non esistono espresse previsioni di legge che dispongano un’automatica rimodulazione del canone né una sospensione dei pagamenti, (Trib. Biella, 17.3.2021). 

Inoltre, si è precisato che, sebbene la pandemia costituisca “fatto notorio”, non per questo può ovviarsi alla dimostrazione del nesso di causalità tra detto evento e gli effetti negativi dedotti dal conduttore in ragione dei quali l’equilibrio tra le corrispettive prestazioni sarebbe stato turbato (Trib. Biella, 17.3.2021). Così, il conduttore ricorrente in sede giudiziale deve “indicare in maniera dettagliata, puntuale e inequivoca sia il settore del comparto aziendale attinto dalla pandemia, sia lo specifico fattore incidente sull’attività in parola.

Ad ogni modo il riferimento all’eccessiva onerosità è utile per prospettare una riduzione ad equità del rapporto ai sensi del citato art. 1467, terzo comma c.c. per tutto il periodo di durata degli effetti sull’economia dell’infezione  da Covid – 19,  che in generale potrebbe rappresentare una valida via d’uscita concordata tra conduttore e locatore.

L'affito di azienda

Per quanto riguarda l’affitto di azienda, il riferimento alle misure di contenimento quali cause che legittimano la richiesta di scioglimento o modifica del rapporto oltre che dalle disposizioni citate è avvalorato soprattutto dalla previsione contenuta nell’art. 1623 c.c. il quale dispone che “se, in conseguenza di una disposizione di legge, o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto”.

È stato precisato l’articolo citato si applica a quei provvedimenti che indirizzano la produzione nel senso contrario alla volontà dell’affittuario, restringendo le possibilità di utilizzo del bene affittato (Dari, Osservazioni sull'art. 1623, in GI, 1947, 74).

La norma, che peraltro deve essere considerata una particolare ipotesi di eccessiva onerosità (Cass. n. 1686/1963) a ben vedere costituisce un solido riferimento alla fattispecie in esame poiché pare del tutto plausibile che tra le i provvedimenti legislativi o delle autorità amministrative riguardanti la gestione produttiva possano farsi rientrare tutte le disposizioni che introducono misure di contenimento o norme interdittive dettate dall’emergenza pandemica.

Così anche in tale ipotesi,  al fine di evitare lunghe e dolorose controversie giudiziarie, la soluzione più ragionevole potrebbe essere quella di arrivare concordemente tra le parti ad una riduzione pattizia del canone sino ad arrivare, in casi particolari, alla sospensione dell’efficacia del contratto e solo nelle ipotesi più gravi alla risoluzione del rapporto, conformemente al citato orientamento della Suprema corte secondo la quale “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione produce la liberazione del debitore solo se consiste in un impedimento oggettivo, assoluto e definitivo, mentre la mera difficoltà dell'adempimento o l'impossibilità temporanea della prestazione producono soltanto la sospensione del contratto” (Cass. n. 794/1979).               



 



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