Speciale Pubblicato il 14/04/2020

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Non si taroccano i bilanci per evitare il fallimento delle imprese

di Istituto per il Governo Societario

Emergenza Coronavirus: gli interventi per sostenere il tessuto imprenditoriale del nostro paese



Le imprese meritevoli devono essere aiutate e sostenute con tutti i mezzi possibili. Ma trasparenza nei conti e affidabilità dei bilanci appaiono fondamentali per curare la crisi dell’economia reale del Paese nel lungo periodo.

(A cura del Dott. Stefano Marchese, membro del Comitato Scientifico dell' IGS)

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Prima proposta

Su “Il Secolo XIX” del 17 marzo 2020, ho letto l’articolo di Mattia Rossi, Presidente di Lega Coop Liguria, intitolato “Una strada per evitare che troppe imprese falliscano”.

L’Autore, dopo aver fatto un’analisi delle difficoltà che le imprese dovranno affrontare a causa delle ricadute economiche della drammatica epidemia che stiamo vivendo e degli interventi – in larga parte condivisibili – che dovranno essere attuati per sostenere il tessuto imprenditoriale del nostro paese, mi ha fatto sobbalzare sulla sedia quando ho letto le seguenti frasi: «Tra le ragioni per cui conteremo la morte delle imprese in maniera molto maggiore rispetto ai reali effetti della crisi (…) vi sarà il criterio di redazione dei bilanci. Già a ora (intendo oggi), molte delle imprese sono in patrimonio netto negativo e pertanto nella situazione indicata agli art. 2446 e 2447 del codice civile: in questi casi la giurisprudenza prevede di dichiarare lo stato di crisi e lo stato di insolvenza patrimoniale. Quindi chi avrà abbastanza patrimonio e capitale sociale potrà dichiararsi in continuità aziendale, chi non ne avrà a sufficienza o immetterà capitale a copertura perdite o sarà costretto a procedere con piani di ristrutturazione del debito. I meno fortunati falliranno».

E allora, ecco la proposta di soluzione: «Mi permetto suggerire che risulterebbe un provvedimento indispensabile quello di permettere una modulazione dell’assorbimento delle perdite e delle clausole di scioglimento delle imprese fino a pensare la possibilità di accantonamento delle perdite ammortizzabili in almeno 5, 7 o anche 10 anni.

«Sarebbe pertanto un’ulteriore ed efficace misura di sostegno alla ripresa (…) la sterilizzazione delle perdite generate nell’esercizio 2020 “spalmandole” in un periodo più lungo, 2020-2026 o meglio 2020-2030, sia per le imprese che non adottano i principi contabili internazionali che per quelle che li adottano».

L’immediata riflessione che un simile ragionamento suscita è che, se l’impresa è decotta, non evita il fallimento taroccando i bilanci. Al massimo, lo pospone di qualche tempo, aggravando il dissesto che, inevitabilmente, si ripercuote su tutti coloro che le hanno fatto credito, sui dipendenti, sul tessuto economico, sulla collettività. Chi tarocca i bilanci e fallisce, commette bancarotta; e anche se la bancarotta venisse legalizzata con provvedimento ad hoc, consentendo di iscrivere all’attivo le perdite ed ammortizzarle (un mostro contabile), le conseguenze per i terzi non muterebbero, mentre il bancarottiere avrebbe il diritto di farla franca.

I malati non guariscono taroccando gli esiti degli esami diagnostici; chi soffre di ipercolesterolemia, non è che guarisce se con decreto-legge il valore soglia di 200 viene elevato a 300. I malati – uomini o imprese che siano – guariscono se ci curano. E per curare le imprese servono piani strategici e ristrutturazioni volti al recupero di competitività, ad aumenti di produttività, a innesti di innovazione, spesso accompagnati da iniezioni di finanza; non bilanci taroccati, o leggi che consentano obbrobri contabili da far sussultare Luca Pacioli nella tomba, per coprire la solita gestione allegra e dissennata.

Seconda proposta

Su MF del 3 aprile 2020 si dava notizia di un’altra proposta, formulata da un gruppo di professori dell’Università di Padova, per i quali occorrerebbe aggiungere una voce all’attivo, tra le immobilizzazioni immateriali, denominata “costi a recuperabilità differita”, a cui le società potrebbero far affluire tutti i costi di esercizio – stipendi, canoni di locazione, merce scaduta, costi per servizi, ecc. – sostenuti dal 23 febbraio al 31 luglio 2020. L’ammortamento della suddetta posta dovrebbe avvenire in 5 anni a decorrere dal 2021, con divieto di distribuzione di utili e di rimborso dei finanziamenti dei soci fino all’integrale ammortamento della suddetta posta.

Va da sé, senza dilungarmi in sofisticate disquisizioni di accounting, che quei costi sostenuti nel periodo di lockdown, sono persi, per cui danno luogo non ad intangible di “nuovo conio”, ma a perdite di esercizio. La recuperabilità futura, semmai, riguarderà le perdite, che dovranno essere contabilizzate come tali, sperando semmai di poterle coprire con gli utili dei futuri esercizi. 

E quindi, anche in questo caso, potrei concludere dicendo che non si capitalizza la fuffa.

Ma la proposta va oltre:

1) il revisore deve “autorizzare” l’iscrizione sulla base dei criteri Consob sulla verifica dei dati pro-forma;

2) il revisore deve «esprimere nella propria relazione un fondato giudizio sulla correttezza e sulla recuperabilità dei costi iscritti all’attivo, sulla base di un piano industriale prodotto dalla società»;

3) il revisore deve «attestare la corretta iscrizione dei costi, la ragionevolezza delle ipotesi riportate nel piano e le possibilità di recupero dei costi iscritti in deroga».

Ora, in un momento di totale incertezza come l’attuale, dubito che il migliore dei revisori al mondo potrebbe, a ragion veduta, autorizzare, esprimere fondati giudizi e attestare che la fuffa capitalizzata all’attivo non è fuffa, perché il piano industriale è fondato e, comunque, la fuffa sarà integralmente recuperata da qui a cinque anni: neppure nominando mago Merlino come un esperto esterno che vede nel futuro, potrebbe avere la tranquillità di metter la sua firma sotto queste attestazioni.

Anche perché, trattandosi di una facoltà, le società più solide e più patrimonializzate se ne guarderebbero bene dall’esercitare la facoltà di capitalizzazione della fuffa, che inquina i loro conti senza alcun reale beneficio; facoltà che, invece, sarebbe scelta da chi è veramente con l’acqua alla gola e, quindi, è più a rischio di saltar per aria da qui a cinque anni, con tanto di un bel residuo di fuffa all’attivo, ancora da ammortizzare.

Per cui appare evidente che nessun revisore sano di mente darebbe il suo consenso a capitalizzare tali costi, visto che vorrebbe dire autorizzare la società a taroccare il bilancio a proprie spese.

Ne consegue che la norma risulterebbe inapplicata nella quasi totalità dei casi, facendo all’opposto rizzare le antenne ai lettori del bilancio in quei pochi casi in cui si leggessero costi iscritti all’attivo a tale titolo.

Considerazioni generali

Queste proposte offrono il destro anche ad una riflessione di più ampio respiro.

Il principio generale dell’ordinamento giuridico è che ognuno risponde delle proprie obbligazioni con tutto il suo patrimonio.

Tale principio subisce una importante deroga con lo strumento delle società commerciali di capitali le quali, in virtù della loro personalità giuridica e della loro conseguente autonomia patrimoniale perfetta, consentono al socio di rispondere dei debiti sociali non già con l’intero suo patrimonio, ma limitatamente a quanto dallo stesso conferito.

Le società di capitali rappresentano “un’invenzione” fondamentale ai fini dello sviluppo degli affari e dell’economia nel suo complesso, giacché permettono all’imprenditore di limitare i rischi della propria intrapresa. Tale responsabilità limitata, tuttavia, non può essere vista come un “regalo” fatto dall’ordinamento ad un certo ceto sociale, quello imprenditoriale, ma è uno status privilegiato che ha – e deve avere – il suo costo.

Tale costo si chiama, nel linguaggio attuale, accountability, ossia il fatto che l’imprenditore, a fronte della responsabilità limitata della sua società, ha due doveri fondamentali, che ne costituiscono il “prezzo”: (a) quello di gestire le risorse dell’impresa con professionalità, visto che egli, oltre ad aver investito i propri denari, è un “gestore” di denaro altrui, ossia di coloro che hanno finanziato l’impresa e che ne sono creditori; e (b) quello di rendere trasparente lo stato di salute della propria società, presentando bilanci redatti in modo impeccabile (e, al superamento di alcune soglie, la cui veridicità venga confermata da un professionista indipendente: il revisore). Questi principi sono il fondamento, tra l’altro, degli artt. 2446 e 2447 c.c. che stanno evidentemente scomodi a molti.

Se l’imprenditore non è in grado di pagare il prezzo della responsabilità limitata, perché non gestisce l’impresa come si deve o perché fa i bilanci “aggiustati”, il privilegio della limitazione della responsabilità non gli spetta: o liquida la società di capitali, volontariamente o coattivamente, oppure la trasforma in società di persone, sottoponendosi così al destino comune di tutti gli uomini, di rispondere delle proprie obbligazioni con tutto il loro patrimonio.

In tal senso, il codice della crisi è il fulcro di un cambiamento culturale epocale nel nostro paese, perché esplicita, per la prima volta, questo rapporto tra il diritto alla responsabilità limitata e i doveri che ad esso conseguono.

Caro imprenditore, vuoi la responsabilità limitata e la tua società supera certe soglie quantitative? Bene, allora devi presentare i tuoi conti ben fatti e debitamente revisionati (nomina del sindaco o revisore) e devi gestire la tua impresa secondo parametri che non le facciano assumere rischi enormi di finire a gambe all’aria (i parametri previsti dal codice della crisi).

Non ti va bene, perché danzi da anni, pericolosamente, sull’orlo del baratro dell’insolvenza, e vuoi continuare così? Nessun problema: o chiudi, o trasformi la tua s.r.l. in s.n.c. Se sei in grado di continuare a fare impresa, anche in termini marginali o marginalissimi, buon per te. Sennò, non puoi danneggiare i tuoi creditori, facendo debiti che verosimilmente non sarai in grado di ripagare: non restituendo i prestiti delle banche, non pagando le fatture dei tuoi fornitori, non versando all’Erario o agli enti previdenziali quanto loro dovuto, magari pagando male e in parte i tuoi dipendenti.

Ora, di fronte a questa premessa, chi si lamenta del fatto che, finalmente, viene chiesto il giusto prezzo a fronte della responsabilità limitata, vorrebbe che tutto continuasse come prima. Il che, però non è possibile. E questa grave crisi va affrontata con ben altri strumenti, e non va certamente strumentalizzata per far approvare norme “salva-zombie”

Le norme del “decreto liquidità”

L’art. 6 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (noto come il “decreto liquidità”) prevede che per gli esercizi chiusi dall’8 aprile al 31 dicembre 2020 non si applichino le disposizioni sulla capital maintenance di cui agli artt. 2446, 2° e 3° comma, 2447, 2482-bis, 4°, 5° e 6° comma, 2482-ter e 2484, 1° comma, n. 4), c.c.

In soldoni, ciò significa che una società che ha perso il capitale, e magari ha un patrimonio netto negativo, deve informare i soci secondo le procedure di legge, ma non è tenuta né a trasformarsi, né a sciogliersi e ad andare in liquidazione.

È però legittimo chiedersi se questa società possa legittimamente continuare a operare “come se nulla fosse” (ossia come se non avesse perso il capitale), come taluno potrebbe essere indotto a pensare da una lettura superficiale della norma.

Purtroppo, non è così. La norma non contiene alcuna deroga al regime di responsabilità degli amministratori, di talché le relative regole si applicano secondo gli ordinari parametri, che anzi diventano particolarmente stringenti dato che ad un amministratore che sa di gestire una società a patrimonio netto interamente perso, se non negativo, si richiede una prudenza ed una diligenza certamente maggiore rispetto all’agire per una società patrimonialmente ricca. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per i sindaci, in relazione ai quali non mi stupirei di leggere una futura giurisprudenza che affermasse che, in presenza di capitale perso, gli obblighi di vigilanza e di controllo sono più stringenti, più frequenti, e che di pari passo vanno le relative responsabilità.

Da questo punto di vista, dunque, il legislatore dell’emergenza ha dimostrato una notevole superficialità, visto che la sospensione degli artt. 2446 e collegati serve a ben poco.

Conclusioni

Le imprese sane vanno aiutate con tutti i mezzi per superare questo difficile momento. Le imprese già oggi in difficoltà vanno risanate in tutti i modi possibili; se non è proprio possibile risanarle, vanno chiuse.

Ma non è pensabile che le imprese inefficienti e mal gestite, che resteranno tali nonostante tutte le provvidenze a sostegno del tessuto economico del paese, continuino a scaricare le loro perdite sulle imprese fornitrici, sulle banche, sulla collettività nel suo complesso. Qualche impresa si dovrà trasformare, o chiuderà. Forse saranno molte. Ma, a medio termine, la declinante economia del nostro paese, nel suo complesso, ne trarrà grandi vantaggi e, al netto delle imprese che chiuderanno, l’effetto sul PIL non potrà che essere positivo.

I tempi sono difficili e chi lo merita deve essere aiutato e sostenuto, senza se e senza ma, con tutti i mezzi possibili. Ma la trasparenza nei conti, l’affidabilità dei bilanci, oggi più che mai, è fondamentale, anzi: è parte della cura, di questa crisi e dell’economia reale del Paese nel lungo periodo.

Ma chi non lo merita, deve capire che è ora di finirla di fare i signori con i denari degli altri!

(A cura di Stefano Marchese)



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