L’internazionalizzazione delle imprese è, per l’economia italiana, una questione di fondamentale importanza.
Lo dimostra il fatto che ogni anno l’Italia esporta per circa 450 miliardi di euro (463 mld nel 2018), che rappresenta circa il 25% del Pil (1.765 mld nel 2018).
A questo risultato contribuiscono oltre 100.000 imprese (136.000 nel 2018, di cui però 77.445 con un export annuale non superiore a 75.000 euro).
Pur essendo questi dati confortanti, è probabile che l’export italiano possa crescere ancora se almeno alcune delle numerose criticità al processo di internazionalizzazione fossero superate dalle Pmi italiane.
Queste criticità sono emerse in occasione dell’esperienza di affiancamento a diverse imprese, e di confronto con i partecipanti ai corsi in materia di internazionalizzazione, sviluppata dall’autore del presente articolo.
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Le criticità emerse sono le seguenti:
1) Difficoltà a individuare i potenziali clienti esteri: questa individuazione deve essere inoltre successiva alla scelta del mercato estero;
2) Insufficienti informazioni sulla controparte estera: questo determina vari problemi come mancati pagamenti, rifiuto della merce, difficoltà di sdoganamento;
3) Insufficienti informazioni sul mercato estero: conseguenze sono la vendita di prodotti inadeguati alle esigenze dei clienti esteri (es. in termini di caratteristiche), oppure difficoltà legali al momento del customs clearance (es. labelling non adeguato alle norme locali);
4) Mancata conoscenza delle norme doganali: ne risulta un cieco affidamento allo shipper (o spedizioniere doganale) o al cliente estero, con il risultato che a volte si pagano voci non dovute (es. i dazi eccessivi), oppure si hanno blocchi della merce per via di documentazione inadeguata;
5) Insufficiente conoscenza delle modalità di ragionamento e di comportamento delle controparti estere: questa circostanza, oltre a spiegare gaffes nei confronti di persone di altre culture, crea i presupposti per misunderstandings nel momento delle trattative, o dell’interpretazione del contratto;
6) Erronea supposizione che la controparte estera ragioni come noi (es. il concetto di flessibilità): questo porta a comportamenti che possono essere considerati inaccettabili dalla controparte estera, mentre per l’operatore italiano sono semplicemente normali;
7) Limitata conoscenza delle lingue estere (a parte l’Inglese): capita di incontrare imprenditori (ma non manager) che hanno conoscenza limitata anche dell’inglese;
8) Impostazione dell’ordine (o contratto) basato semplicemente su una traduzione in Inglese (a volte approssimativa) del testo in italiano: non si considerano quindi problematiche, come quelle rientranti nella Force Majeure (cd. hardship clause), che magari non capitano nei rapporti con clienti italiani;
9) Insufficiente conoscenza dei migliori metodi di pagamento che offrono garanzie: es. non basta usare una lettera di credito (LC), se poi la banca del cliente estero emittente la LC non viene accettata dalla banca italiana ai fini della conferma della LC;
10) Scelta non sempre ottimale dell’Incoterm: a volte ci si impegna in attività logistiche difficili nei confronti del cliente estero, che potrebbero essere evitate al momento dei negoziati.
Per questo motivo intraprendere un percorso di internazionalizzazione della propria impresa richiede una preparazione che va oltre alle competenze merceologiche, che sono una condizione necessaria, ma non sufficiente.
E’ infatti necessario sviluppare conoscenze, oltre che linguistiche, anche di natura tecnica negli ambiti doganali, del marketing internazionale, delle trattative con soggetti esteri, nonché dei contratti, dei pagamenti, e dei trasporti internazionali.