Si è molto discusso se le prestazioni d'opera rese tra persone conviventi legate da vincolo di parentela, di affinità o semplicemente di ospitalità potessero essere oggettivamente qualificabili come prestazioni di lavoro domestico, a titolo gratuito oppure a titolo oneroso.
L'Inps, nella seduta del 23 giugno 1972, ha deliberato che le denunce di rapporto di lavoro tra parenti ed affini non possono essere respinte, aprioristicamente, in via presuntiva, ma debbono essere valutate, caso per caso, in base alla situazione di fatto, al grado di parentela ed alla convivenza.
La citata delibera non ha introdotto una inversione dell'onere della prova - il che sarebbe stato in contrasto con lo spirito e la lettera dell’art. 1 del D.P.R. 1403/1971 - ma ha inteso stabilire che secondo l'interpretazione costante della magistratura, la presunzione di gratuità che si accompagna alle prestazioni di lavoro domestico rese tra congiunti conviventi può essere vinta solo dalla prova rigorosa che le prestazioni lavorative da una parte e la corresponsione di vitto, alloggio e denaro dall'altra costituiscano l'oggetto di obbligazioni corrispettive alle quali le parti si siano vincolate in forza di un rapporto di lavoro subordinato.
La giurisprudenza è arrivata a tale conclusione partendo dal presupposto che è certamente corretto che la prestazione di attività inerenti alla vita domestica c tra persone conviventi unite da stretti vincoli di parentela o affinità si possa considerare di per se di natura "non onerosa".
Da questo deriva la conseguenza che colui che invoca invece un rapporto di lavoro di tipo subordinato deve darne la relativa prova (a meno che di un siffatto rapporto già non emergano elementi concreti "per tabulas" (atti scritti n.d.r.) significativi.
È anche vero che la presunzione di gratuità può operare anche in un rapporto tra persone conviventi legate da vincolo di "affettuosa ospitalità", ma è evidente che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., chi assume l'esistenza di un vincolo del genere suddetto ha sempre l'onere di dimostrare con prove idonee (parlare di prova rigorosa non ha senso, in quanto la prova è in ogni caso relativa al fatto da provare; in altre parole, un fatto si prova o non si prova e non può esistere una prova semplice ed una rigorosa, così da far pensare che la prima potrebbe anche non costituire prova) il suo assunto: così per un rapporto di parentela può essere sufficiente un certificato anagrafico, mentre la prova di un rapporto generato da un vincolo affettivo - vincolo che può essere costituito da una convivenza "more uxorio", spesso notoria e quindi facilmente dimostrabile, o da una convivenza da affetto di altro tipo - la prova può essere più complessa e difficoltosa, dovendo poggiare su basi oggettive, non essendo sufficienti mere asserzioni della parte che se ne vuole giovare.
Sul punto è pienamente da condividere il principio enunciato dalla sentenza della Cass. civ., n. 10862 del 1996, secondo il quale l'elemento che giustifica la gratuità di prestazioni lavorative obiettivamente riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato, e quindi ad un contratto naturalmente oneroso, deve essere accertato con indagine particolarmente rigorosa (termine questo riferito alla indagine e non alla prova) (..).
Se così non fosse, ogni datore di lavoro, in un rapporto di lavoro domestico caratterizzato dalla convivenza, e ciò dalla fornitura anche del vitto e dell'alloggio nonché, per le infermità di breve durata, dalla cura e dall'assistenza medica, potrebbe sottrarsi alle pretese del lavoratore semplicemente affermando essersi trattato di rapporto tra persone conviventi legati da vincolo di "affettuosa ospitalità", rimettendo al lavoratore ogni onere probatorio.
In generale l'onere della prova opera su di un piano paritario:
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Per approfondire puoi scaricare il Commento alla recente sentenza di Cassazione n.30899/2018 .
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In particolare, sull’argomento, dall'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, possono ricavarsi i seguenti criteri:
Infine, l’art. 1 del D.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1403 ritiene che sono assicurabili nel settore domestico, con esonero dall'onere di fornire la prova del rapporto di lavoro, pur in presenza di vincoli familiari, le persone che svolgono le seguenti mansioni:
Interessante è capire se il convivente more uxorio possa svolgere mansioni di lavoro domestico basato sulla subordinazione.
Secondo la Cassazione n. 10927 del 1994 , un'attività lavorativa che si svolga nell'ambito della convivenza more uxorio non è di norma riconducibile ad un rapporto di subordinazione onerosa, mentre è semmai possibile inquadrare il rapporto stesso nell'ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall'art. 230 bis c.c.; principio che può estendersi anche alla vera e propria impresa familiare atteso che la famiglia di fatto costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale (art. 2 Cost.).
Di recente, la giurisprudenza di legittimità ha più recentemente affermato che il carattere residuale dell'impresa familiare, mira proprio a coprire tutte quelle situazioni di apporto lavorativo all'impresa del congiunto, parente entro il terzo grado o affine entro il secondo grado, che non rientrino nell'archetipo del rapporto di lavoro subordinato .
Sicchè, ove un'attività lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, occorrerà distinguere la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all'impresa familiare, senza che possa più avere ingresso alcuna causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Principio questo che può essere esteso anche alla famiglia di fatto .
Ma al di fuori di questa ipotesi, la prestazione lavorativa resa nell'ambito di una convivenza more uxorio rimane tuttora riconducibile ai vincoli di fatto di solidarietà ed affettività (...)
Di conseguenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria di legittimità , è possibile ritenere applicabile il principio, secondo cui le prestazioni di lavoro tra conviventi more uxorio possono:
accertarne la sussistenza è compito del Giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti e la sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori logico - giuridici, non è censurabile in sede di legittimità.