Il contribuente che per crisi di liquidità decide di pagare i propri dipendenti invece di assolvere il proprio debito tributario non versando l’IVA dovuta commette il reato di “Omesso versamento di IVA”.
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Come noto i soggetti passivi IVA devono periodicamente determinare la differenza tra l’ammontare dell’IVA a credito, rilevando l’imposta detraibile sugli acquisti, e dell’IVA a debito, riferita alle cessioni di beni o alle prestazioni di servizi effettuate in un certo lasso temporale.
Qualora dalla differenza in questione dovesse emergere una prevalenza dell’IVA a debito, i contribuenti devono quindi provvedere al versamento dell’imposta.
Nel caso in cui un soggetto non provveda a versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta all’Erario, possono determinarsi due situazioni:
Nella Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione del 28.10.2015 i giudici di Piazza Cavour, a commento delle novità legislative introdotte dal D.Lgs. n. 158 del 24.09.2015 che ha revisionato il sistema penale tributario, hanno evidenziato come con l’attuale formulazione del citato art. 10-ter, per il quale con la revisione avvenuta nel 2015 è stato innalzato il limite dell’omesso versamento IVA riducendo in maniera significativa l’area di rilevanza penale della delitto de quo, il legislatore ha inteso operare una netta scelta sul criminalizzare o meno condotte di mero inadempimento fiscale, non caratterizzate da profili di fraudolenza.
L’attuale struttura del reato di “Omesso versamento dell’IVA” risulta essere la seguente: “E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d'imposta”.
Nel trattare il delitto di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, il documento di prassi operativa della Guardia di Finanza denominato “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali” (circolare n. 1/2018) specifica che il reato in questione:
Recentemente la Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’omesso versamento di IVA incardinato in un argomento di forte attualità: la crisi di liquidità aziendale.
Nella sentenza n. 52971 del 26.11.2018 la Corte si è espressa su un ricorso presentato da un contribuente contro una precedente sentenza della Corte di Appello di Milano, che lo aveva condannato a 2 anni di reclusione per il reato di omesso versamento dell’IVA dovuta in qualità di legale rappresentante di due distinti soggetti giuridici.
La difesa del contribuente si basava essenzialmente sul fatto che la commissione della condotta illecita del proprio assistito andava ricondotta ad una crisi d’impresa, dovuta al mancato pagamento dei crediti da parte dei clienti di una delle due società amministrate dal soggetto imputato.
Crisi di liquidità che ha poi interessato anche la seconda società amministrata dal contribuente in questione e che, divenendo secondo la difesa una causa di forza maggiore, ha portato il soggetto a scegliere di pagare i propri dipendenti anziché versare il debito tributario maturato.
Su questi punti la Suprema Corte ha ricordato che il reato di omesso versamento IVA è a dolo generico ed è integrato dalla consapevole scelta del contribuente di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell'attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute all'Erario, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio debito erariale, anche se ciò comporta l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare.
Sul particolare tema, poi, dell’addurre la causa di forza maggiore della crisi d’impresa nella condotta di omesso versamento dell’IVA, la Cassazione ha ricordato come la causa di forza maggiore in grado di escludere il dolo deve essere valutata al momento della consumazione del reato e non può essere “retroagita”, né può essere identificata con fattori che incidono solo della dissociazione dell’autore della condotta dalle conseguenze che ne derivano.
I giudici di legittimità hanno inoltre ribadito che dedurre la crisi della liquidità dell'impresa quale fattore che esclude l'intenzione di non adempiere, ma non la volontà dell'omissione, è un’operazione errata che presuppone l'esistenza, a fini di integrazione della fattispecie penale, di “momenti di valorizzazione dello scopo della condotta del tutto esclusi dalla natura generica del dolo”.
In tal senso, neanche la mancanza di provvista necessaria all'adempimento dell'obbligazione tributaria penalmente rilevante può essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità.
In aggiunta a ciò, nella sentenza in rassegna i giudici hanno aggiunto che poiché la forza maggiore postula l’individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell'agente, così da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente, la Corte di Cassazione ha quasi sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa un soggetto possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante.
In sostanza, quindi, “[…] integra la causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà, di porre in essere il comportamento omesso.
In altri termini, deve affermarsi che l'imprenditore che necessiti di liquidità non può ricercarla e ottenerla col mancato pagamento delle imposte, per cui l'omesso versamento di somme dovute all'Amministrazione finanziaria si traduce in un illecito penale del contribuente a meno che questi non provi che, prima di omettere i pagamenti, abbia fatto ricorso a strumenti che abbiano impattato sul suo patrimonio personale, come l'aumento o la ricostituzione del capitale sociale dell'impresa, l'effettuazione di finanziamenti all'impresa stessa, la prestazione di personali garanzie a istituti di credito o banche perché finanzino la persona giuridica in difficoltà.
A livello processuale, non può, pertanto, rilevare un generico richiamo dell'imputato alla crisi finanziaria dell'impresa senza allegazioni circa tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà”.