In un recente ricorso presentato dinanzi alla Corte di Cassazione è stato affermato che nel compimento del reato penale di indebite compensazioni il legale rappresentante del soggetto giuridico per il quale vengono effettuate le compensazioni non può essere ritenuto responsabile di un comportamento illecito tenuto da altri (nel caso in esame dal commercialista) e del quale non è dimostrato che ne fosse a conoscenza.
IL CASO
Con la recente sentenza n. 26236 del 08 giugno 2018, la Corte di Cassazione ha affrontato un ricorso presentato da un amministratore e legale rappresentante di una società, condannato per il reato di cui all’art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000, quindi per non aver versato le somme dovute a titolo di imposta utilizzando, nei modelli F24, compensazioni per crediti inesistenti o non spettanti riguardanti gli anni 2009 (€ 221.717) e 2010 (346.551).
Seguendo il percorso giurisprudenziale delle Sezioni Unite (Corte di Cassazione, sentenza n. 38343 del 24/04/2014), i giudici hanno osservato che:
“il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.
Nel caso esaminato dagli ermellini, in capo all’imprenditore era stata individuata una culpa in eligendo e/o in vigilando in ordine all’operato del proprio commercialista e per tale ragione la Corte di appello di Bari aveva affermato che l’imputato doveva rispondere del reato di indebite compensazioni a titolo di dolo eventuale.
Ciò in quanto, come ricostruito nella sentenza il rappresentante legale sapeva già da tempo che il professionista che seguiva la società aveva una cattiva e disordinata gestione della contabilità, arrivando a non registrare le fatture.
Secondo la Suprema Corte, invece, in capo al commercialista pare configurabile un atteggiamento meramente colposo e, come evidenziato in sentenza, non si comprende come l’atteggiamento colposo del professionista possa prefigurare, in capo al cliente, un atteggiamento doloso.
Inoltre, prosegue la sentenza, anche se l’imprenditore era venuto a conoscenza del fatto che il commercialista non registrava le fatture, la Corte non comprende come dall’essere venuto a conoscenza di tali circostanze, il rappresentante legale potesse anche rappresentarsi l’indebita compensazione del credito fiscale superiore alla soglia di € 50.000.
Per tali ragioni la Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza in ordine al dolo in capo all’imprenditore.
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A tutela dell’interesse erariale nella riscossione dei debiti tributari, il legislatore, con il comma 7 dell'art. 35 del D.L. 223/2006, ha introdotto nel diritto penale-tributario una nuova fattispecie criminosa per indebita compensazione, operante per chiunque non versa le somme dovute utilizzando in compensazione ex art. 17 del D.Lgs, 241/1997 crediti non spettanti o inesistenti.
La fattispecie di reato in parola è prevista dall’art. 10-quater del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, articolo che recentemente è stato oggetto di una integrale riscrittura da parte del D.Lgs. n. 158/2015. Il testo attualmente in vigore è il seguente:
“”1. E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
2. E' punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.””.
L’attuale struttura dell’art. 10-quater è in vigore dal 22 ottobre 2015 e si differenzia dalla precedente formulazione per un inasprimento nella previsione sanzionatoria della fattispecie criminosa generata mediante l’utilizzo di crediti inesistenti.
Il delitto di indebita compensazione si realizza adoperando in compensazione, con l’apposito modello F24, crediti tributari o previdenziali "non spettanti" o "inesistenti".
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, il reato di indebita compensazione richiede il dolo generico. Ne consegue che il reato può essere commesso da qualunque soggetto qualificabile come contribuente.
La norma incriminatrice prevede il perfezionamento del reato solo al superamento di una data soglia di punibilità, che il legislatore, sia nei casi di compensazioni con crediti non spettanti che con crediti inesistenti, ha fissato in euro 50.000.
Come poi specificato nella circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza (“Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”), il delitto di compensazioni indebite si configura come istantaneo, visto che si consuma nel momento in cui si procede, nel medesimo periodo d’imposta, alla compensazione di un ulteriore importo di crediti non spettanti o inesistenti che, sommato agli importi già utilizzati in compensazione, sia superiore a cinquantamila euro.
Va ricordato, infine, che questo reato si perfeziona all’atto dell’invio o della presentazione del modello F24 all’istituto di credito convenzionato cui è stata conferita apposita delega irrevocabile, ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 241/97.