Stanno francamente destando serie perplessità e qualche preoccupazione alcune sentenze della Suprema Corte (due finora, con la più recente, ovvero la Sentenza della Cassazione n. 9672 depositata il 19 aprile 2018 (Pres. Bruschetta, Rel. Fuochi Tinarelli) che sembrerebbero aprire spiragli per una responsabilità illimitata tributaria dei soci di s.r.l. dopo la chiusura delle operazioni di liquidazione e dopo la cancellazione dal registro delle imprese.
In realtà, mentre alcuni organi di stampa hanno già posto in allarme i propri lettori e prefigurato la fine delle piccole società di capitali, una lettura attenta della recente sentenza non dovrebbe condurre a questi apocalittici scenari.
Rimane tuttavia la perplessità fortissima per alcuni passaggi motivazionali. E la preoccupazione, perché la Cassazione decide sulla base di sentenze delle Sezioni Unite nate in altro contesto e per risolvere questioni nomofilattiche differenti, e da questa interpretazione dell'interpretazione, se ci è consentito sottolineare un aspetto piuttosto discutibile, si potrebbe derivare proprio il temuto scenario di una s.r.l. post liquidazione che diventa una s.n.c.
Con riflessi possibili non solo per le s.r.l. di poche persone come nel caso specifico, ma anche le società quotate nei mercati, l'estensione alle quali di questi principi creerebbe degli effetti gravissimi nella percezione degli investitori. Ciò visto che il 2495 c.c. e il 2312 c.c., nella lettera delle norme e nella lettura della giurisprudenza, non hanno da questo punto di vista particolari differenze.
E tale soluzione, pur non esplicitata a nostro modesto avviso, non è affatto lontana dalle elaborazioni di cui parleremo.
Già illustri autori nel 2015 avevano parlato della storica resistenza della Suprema Corte verso il concetto di estinzione delle obbligazioni tributarie per cancellazione di una s.r.l., resistenza tacitata solo dalla stabilità della Legge per molti anni. Successivamente “la modifica apportata dall'art. 44 del D.Lgs. n. 6/2003 al testo dell'art. 2495 c.c. ha fatto subito riaccendere la miccia. Non sono poi bastate le Sezioni Unite del 2010 a spegnere il fuoco di nuovi contrasti. Né i travagli applicativi delle Sezioni semplici e dei giudici di merito. E neppure le tre sentenze pronunciate dalle Sezioni Unite nel 2013” (1).
L'idea del possibile recupero delle imposte in capo ai soci di una società di capitali estinta è, nel racconto della storia, importante, giacché costituisce un chiodo fisso della parte pubblica. La quale, anche prima della riforma dell'articolo 2495 c.c. del 2003 non applicava correttamente l'articolo 36 del D.P.R. 602. Norma che esisteva da tempo e che limitava la responsabilità dei soci della società estinta ai casi in cui i soci stessi avessero ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o avessero avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione.
Quindi nella norma speciale è chiarissimo che a) il concetto da rimarcare è quello di responsabilità b) la responsabilità è circoscritta alle ipotesi dell'articolo 36 e dunque ai casi di un residuo attivo di liquidazione stornato ai soci e/o di assegnazioni nel biennio pre-liqudazione.
Tutto facile, allora, con la norma speciale che ovviamente prevale sulla civilistica, qualunque essa sia.
Ma per quanto appena detto, storicamente, la parte pubblica ha invece ritenuto di agganciare la regolamentazione dei casi simili alle instabili interpretazioni della regola civilistica (mutata anch'essa dal 2003 in avanti).
Dopo il 2003 in particolare, la maggior rigidità del codice civile ha creato problemi ulteriori a chi si fosse ad essa affidato. Ed anche opposto continuando ad applicare la vecchia normativa alle liquidazioni precedenti, in quanto la norma era ritenuta, testualmente “procedurale” (2).
Come spesso è accaduto negli anni a noi più vicini, a lenire le difficoltà dell'attività di riscossione, è intervenuta una norma specifica: la più recente modifica operata dal D.Lgs. 175/2014.
L'art. 28 del citato testo normativo, sotto la rubrica ribattezzata come "coordinamento, razionalizzazione e semplificazione di disposizioni in materia di obblighi tributari", istituisce al quarto comma la regola per cui “l'estinzione della societa' di cui all'articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.
Vengono operate, stavolta, anche alcune modifiche alla regola tributaria. In particolare, il comma 1 dell' art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 viene completamente rivisto. Con la modifica di poche parole (invece che " se non soddisfano ", si inserisce l'espressione "non provano di aver soddisfatto" ), viene operato di fatto un cambiamento importante sul piano dell'onere probatorio, posto adesso carico dei liquidatori. Viene poi aggiunto al comma 3 dell' art. 36 un periodo, nel quale, relativamente ancora alla responsabilità dei soci, si precisa che "il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria".
Ma la questione, che dovrebbe essere piuttosto definita dopo le modifiche normative e i passaggi della giurisprudenza, tra i quali ben due delle Sezioni Unite (3), rimane ancora controversa.
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Il testo della Sentenza della Cassazione 9672/2018 lo puoi trovare all'interno della Rivista n. 41 sul sito www.iltributo.it
Chi ponga a fondamento delle storiche difficoltà interpretative le eventuali differenze tra regole civilistiche e fiscali a nostro modesto avviso non va nella direzione giusta. Ciò perché, per quanto siano ovviamente differenti, attenendo a sfere diverse di problematiche, le due normative non hanno punti di contrasto evidenti. Vorremmo poi aggiungere che neppure dal lato del professionista che analizzi le questioni contabili e di bilancio, mai centrali per i Giudici (e forse neppure loro appannaggio), si possa ravvisare qualche elemento d frattura tra le une e le altre.
Per l'articolo 36 del decreto sulla riscossione, allora, la questione dell'eventuale escussione del socio viene posta in termini di responsabilità. Il socio non assume l'obbligazione della società estinta in quanto socio: ma è responsabile di essa ex lege , coi limiti specificamente individuati.
Come detto lo schema non è dissimile da quello civilistico: anche nel 2495 c.c., infatti, mai si fa riferimento ad una traslazione di obbligazione. Si afferma che “Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione” (e conseguentemente di tutti i rapporti ad essa facenti capo), “i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”.
Non si tratta dunque né di una riviviscenza della società estinta e neppure di una traslazione di rapporti patrimoniali ad essa riferibili. Anche in questo caso lo schema è quello della responsabilità del socio, coi limiti (non diversi sostanzialmente dalla regola fiscale) che la Legge stabilisce.
La responsabilità dei soci dopo la cancellazione, d'altro canto, è una regola sistematicamente coerente. Essa riflette infatti la semplice applicazione post-cancellazione della normativa societaria secondo cui i soci hanno diritto al residuo netto del patrimonio sociale dopo il pagamento dei creditori.
Fermiamoci qui un attimo e ribadiamo il concetto. Sia dal lato civilistico che fiscale l'eventuale chiamata in causa del socio per debiti della società estinta è motivato in termini di responsabilità. Mai si fa alcun riferimento al fatto che le obbligazioni della società diventino, dopo lo scioglimento della stessa, obbligazioni del socio.
Questo fatto, per chi abbia assistito una società in fase di liquidazione, è, sul piano pratico, tutt'altro che remota. Visto infatti che non si può chiudere una società se rimangono ancora attività da liquidare o passività da definire, spesso le prime vengono assegnate o più frequentemente cedute ai soci e le seconde, con apposita delibera, vengono trasferite agli stessi soci per accollo.
Non esiste però una regola normativa per la quale se una attività o una passività residuano da un eventuale scioglimento, diventano ipso iure attività o passività dei soci. I rapporti in capo alla società sono definiti e di regola non c'è una traslazione su chi della società faceva parte.
Ma di fronte a un caso nel quale un credito della società non sia stato posto nel bilancio finale di liquidazione e successivamente si voglia chiedere il suo pagamento che succede? La risposta che parrebbe più logica è che gli ex soci, che avrebbero potuto trasferire il credito a loro stessi, come detto, in fase di riparto finale, con una successiva analoga manifestazione di volontà (se nei termini per esercitarla) effettuino una constatazione dell'errore e decidano insieme di esercitare il credito in proprio.
Ammettiamo però che la questione non sia del tutto lineare. Ed infatti una vicenda analoga è arrivata fino alle Sezioni Unite. Le quali hanno così hanno deciso: “ Se l'esistenza dell'ente collettivo e l'autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s'instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione”. (4)
Nelle sentenze gemelle delle Sezioni Unite non si affronta, se non incidentalmente, la questione della responsabilità patrimoniale dei soci per debiti della società, né sotto il profilo civilistico né, tantomeno, sotto quello tributario. Si parla invece di rapporti patrimoniali attivi (nella sentenza n. 6072) o di rapporti processuali (nella sentenza 6070 – con identico riferimento come si legge sopra ai “rapporti patrimoniali attivi”) che facevano capo alla disciolta società e della possibilità di trasferirli ai soci. Si cerca una regola, insomma, laddove una regola normativa espressa non c'è. Si parla di diritti patrimoniali e di rapporti processuali, non di responsabilità, previste e delimitate in modo preciso ex lege. Si cerca un modo per riferire ai soci qualcosa che non sia stato ripartito perché non liquidato. Ancora con riferimento alle attività, evidentemente.
Dal lato delle passività non si può che fare riferimento alle regole predette sulla responsabilità, che è cosa ben diversa.
Parliamo solo di debiti da fine liquidazione allora. Da questo lato, il meccanismo successorio non funziona per quanto non rilevabile al momento della chiusura della liquidazione.
Se invece l'attività o la passività è presente a bilancio la successione è insita già nelle modalità della liquidazione, nella quale la distribuzione di un residuo attivo avviene dopo aver pagato i creditori, come si è già detto. Chiudere la liquidazione senza pagare non è possibile, se non trasferendo il debito dal bilancio della società ai soci. Chiudere la liquidazione senza rinunciare ad un elemento attivo presente a bilancio, o trasferire lo stesso ai soci ugualmente non ha senso.
Poniamo allora di aver ricevuto una cartella di pagamento per iva non versata, prima della liquidazione o durante la stessa.
Al momento della chiusura della liquidazione c'è un debito a bilancio. Ed allora il liquidatore chiederà probabilmente alla base societaria di ripianare il debito. Se non si fa immediatamente si può fare un accollo del debito. Cioè, sottolineamolo, il debito si può trasferire ai soci per espressa volontà degli stessi. Espressamente. Non per successione. Siamo appunto in una società a responsabilità limitata. Altrimenti, siccome si chiude solo dopo aver pagato i creditori, si apriranno le fasi di una procedura fallimentare. Di iniziativa del debitore, e quindi del liquidatore, del creditore stesso, o del pubblico ministero se le condizioni per il fallimento emergessero nel corso di un giudizio (artt. 6-7 l.f.).
Se il liquidatore, malgrado l'esistenza del debito, chiude la società, egli è responsabile degli effetti del proprio operato.
Ma quali sono questi effetti su cui vi è responsabilità? Occorre partire ancora dalle responsabilità, che ragionevolmente possono consistere in a) non aver pagato dei debiti a fronte dei quali esistevano attività di liquidazione (ed allora, siccome tali attività saranno state distribuite, scatta anche la responsabilità dei soci) b) non aver rispettato, nei pagamenti di debiti parzialmente operati, la gradazione dei privilegi che sarebbe stata assicurata in fase fallimentare.
Ma a fronte di debiti fiscali, come detto, l'attuale formulazione dell'articolo 36 del decreto sulla riscossione dice proprio questo, quando statuisce che “ I liquidatori dei soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all'obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità è commisurata all'importo dei crediti d'imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.
Insomma la norma fiscale e le regole civilistiche, in relazione alle responsabilità del liquidatore, parlano la stessa lingua.
E i soci?
I soci potrebbero aver approvato un bilancio finale di liquidazione nel quale i comportamenti appena visti sono stati ratificati. E dunque aver ottenuto dalla liquidazione dei residui attivi che non sono giustificati, permanendo delle passività.
Tali residui attivi sono quindi illegittimamente trasferiti. Giusto che il creditore sociale si possa rivalere su tali somme.
Ma anche in questo caso la regola tributaria prontamente interviene: “ I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d'imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi”.
Mai e poi mai si può chiedere ai soci di pagare i debiti sociali per cifre eccedenti le disponibilità patrimoniali della società. Ovvero quelle disponibilità, presenti nella liquidazione e che, per errore o per altro motivo, sono state trasferite prima di aver pagato i creditori sociali. Altrimenti, per fare un favore (non legittimato da alcuna norma) all'erario si vanificherebbero le basi della società a responsabilità limitata, che per il codice civile è e rimane quella società nella quale “ per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il proprio patrimonio” (Art. 2462).
Prendiamo ad esempio di un primo orientamento richiamato nella massima di cui parliamo, la sentenza n. 2444/2017 (5). Siamo appunto in ambito di tributi non versati e di scioglimento della società senza il pagamento di essi. La Corte di cassazione va a leggere le sentenze del 2013 estrapolandone il contenuto. Ma cerca, pur con il riferimento al concetto di “successione”, una composizione con quello della “responsabilità”.
I Giudici di legittimità esaminano il ricorso prospettato dagli ex soci e dal liquidatore di una società di costruzioni a responsabilità limitata - cancellata dal registro delle imprese nelle more del giudizio di secondo grado - nei confronti della quale l'Agenzia delle entrate aveva avanzato pretese (confermate sia in primo, che secondo grado) ai fini IRPEG, IVA e IRAP.
Cioè la Corte si pone il problema di come considerare un comportamento (evidentemente non virtuoso, da ciò che si capisce dalla motivazione) di una società di capitali che, dovendo pagare imposte, chiude senza assolvere l'obbligazione tributaria.
La risposta esiste e a nostro avviso è quella già ipotizzata nel paragrafo precedente. Si sono destinate somme ai soci? Essi le dovranno reintegrare per quanto prevede la regola tributaria. Non sono state distribuite somme? Occorre capire se le regole sui privilegi siano o meno state rispettate nei pagamenti operati in fase di liquidazione. Altrimenti non avrebbe senso alcuna azione. E, come abbiamo visto, le regole della riscossione si allineano a questa impostazione.
E non dissimili appaiono le considerazioni della Corte. Seppur esse si richiamano non alla responsabilità direttamente, ma al fenomeno successorio evidenziato nelle sentenze delle sezioni Unite del 2013.
Letteralmente : “Quanto poi alla posizione dei soci, occorre rammentare che, ai sensi dell'art. 2495 cod. civ. (nel testo risultante dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003), a seguito dell'estinzione della società, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l'obbligazione della società non si estingue ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (Sez. U, n. 6070 del 2013, cit). Trattandosi nel caso di specie di società di capitali gli ex soci possono dunque ritenersi subentrati dal lato passivo nel rapporto d'imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione”.
Non si parla certo di una estensione di responsabilità ai soci, né di far diventare una s.r.l. una società in nome collettivo,
E in senso analogo si esprimono alcune sentenze precedenti della Corte stessa (Cass. 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., 26 giugno 2015, n. 13259).
Veniamo ora all'approdo delle nostre considerazioni, finalmente, alla questione di cui ci siamo prefissi di trattare (6).
Con una massima che costituisce praticamente la copia fedele di un solo precedente omologo (7), la Corte allarga in modo non del tutto convincente (e con prospettive ulteriori imprevedibili) la responsabilità dei soci da fine liquidazione.
Ancora una volta si pone il problema di che cosa succede se una s.r.l. non ha versato delle imposte, ma chiude senza che i soci non abbiano percepito alcunché dal bilancio finale di liquidazione. Nel caso specifico la cartella di pagamento in capo alla società era stata addirittura annullata in appello poiché tardiva. Quindi la s.r.l. era stata cancellata, dal punto di vista fiscale, assolutamente in bonis .
La Corte ricorda le sentenze delle Sezioni Unite (Sez. U, 12 marzo 2013, n. 6070 e n. 6072) che individuano la ratio dell'art. 2495 c.c. (con una lettura per la verità che non abbiamo colto nel testo delle massime citate) « nell'intento d'impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest'ultimo del suo diritto … questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati».
In un primo momento si è letta questa affermazione come una dichiarazione di responsabilità illimitata dei soci. E non siamo stati i soli per la verità. Ma anche se volessimo sottolineare il riferimento (e lo facciamo con forza, evidentemente) ai “limiti di responsabilità nella medesima norma indicati” la lettura della Corte non fa stare tranquilli sotto questo profilo.
La Quinta sezione estrapola dalla sentenza delle Sezioni Unite un principio di base opposto a quello della limitazione della responsabilità dei soci. Poi riconosce (doverosamente) che esiste giurisprudenza in senso favorevole alle garanzie per i soci (Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., 26 giugno 2015, n. 13259; da ultimo Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444).
Ma i Giudici aggiungono che queste conclusioni, “come osservato da Cass. 7 aprile 2017, n. 9094 (seguita, in termini ampi, da Cass. 16 giugno 2017, n. 15035), non sono in linea con i principi affermati dalle Sezioni Unite che individuano sempre nei soci coloro che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all'esito della cancellazione) a prescindere dall'aver questi goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione”.
Vengono tenute distinte al riguardo le situazioni giuridiche del liquidatore e dei soci.
Quanto al liquidatore, le regole della riscossione esistono “ in funzione del prioritario soddisfacimento dei crediti tributari, sicché, estinta la società contribuente, non si realizza alcuna forma di successione nei confronti del liquidatore, ma sorgono ipotesi di responsabilità nuove e fondate su differenti presupposti, ancorché implichino l'esistenza della obbligazione tributaria”.
Per ciò che attiene ai soci, invece, il fatto che la società sia estinta senza che dal bilancio finale si siano distribuite somme a favore dei soci, “ non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l'azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (in termini, Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070 e 6072” . Ciò, come detto “ indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione”.
Circa la questione dell'attivo distribuito si osserva “Che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell'esclusione dell'interesse ad agire del fisco creditore. Le sezioni unite, con le sentenze da ultimo indicate, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell'interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all'accertamento del proprio diritto” .
Il che parrebbe non avere come conseguenza l'aggredibilità diretta del patrimonio dei soci, quanto la sua astratta configurabilità nel caso in cui si determinassero diverse condizioni nell'attivo di liqudazione. In tal senso sembra portare il richiamo a “La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l'interesse dell'Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell'interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. Nè persuasiva pare, al riguardo, la pronuncia di Cass. 22 luglio 2016, n. 15218, che sul punto si limita ad affermare che "il suddetto limite di responsabilità - ossia quello stabilito dall' art. 2495 c.c. - si riflette sul requisito dell'interesse ad agire nei confronti dei soci, evidentemente carente laddove, come nello specifico, nessuna riscossione di somme vi sia stata all'esito della procedura di liquidazione".
Quindi, dalla lettura più approfondita della sentenza, sembra si possano derivare alcuni concetti:
a) ciò che non viene pagato si trasferisce ai soci, come debito di questi ultimi, in virtù di una successione di tali rapporti
b) a questo punto (solo a questo) scattano i limiti alle responsabilità di legge
c) se emergessero sopravvenienze oppure beni o diritti non contemplati nel bilancio, il titolo procuratosi dall'Agenzia nei confronti dei soci sarebbe valido per andare ad aggredire i loro beni.
Almeno pare di capire questo da una sentenza (anzi due) che non brillano certo per rigore della ricostruzione dei precedenti e per chiarezza.
Torniamo un attimo a quando dedotto in precedenza sulla chiusura di una liquidazione con passività a bilancio.
La liquidazione correttamente si chiude solo quando esse siano state pagate o trasferite ai soci. Sicuramente nessuna somma si può distribuire se non dopo il pagamento dei debiti.
Le regole sulla responsabilità nella riscossione ripropongono tali considerazioni, nel senso che sono perfettamente lineari rispetto ad esse.
Perché introdurre allora il concetto di “successione” dal lato delle obbligazioni passive?
Esso è sbagliato, prima di tutto. Per poter parlare di una “successione”, ovvero di una responsabilità illimitata in taluni casi occorre dedurre che quanto non pagato viene trasferito ai soci, Ma per far questo in ambito di società di capitali occorre una espressa volontà, trattandosi di soggetti diversi e dotati di diversa personalità oltre che di autonomia patrimoniale. Un conto è chiudere una liquidazione a zero per accollo volontario dei debiti. Un altro è chiudere (con le responsabilità relative, ma non certo diventando una s.n.c.) la liquidazione con un residuo passivo. Non possono essere due fattispecie sovrapponibili. Neppure per elaborazione giurisprudenziale.
Ed è preoccupante poi. Così come le due sentenze fanno una esegesi non del tutto lineare delle Sezioni Unite del 2013, allora, potremmo avere, se passasse questo orientamento (minoritario) un ulteriore passaggio giurisprudenziale che, magari, consentisse all'Agenzia di procurarsi oltre che un titolo ad agire nei limiti delle responsabilità di legge, un analogo titolo che da queste prescinda.
Al riguardo ci permettiamo allora di ricordare che, a parte le elaborazioni che si fondano su elaborazioni, il Giudice è sì soggetto solo alla Legge. Ma quando le leggi esistono e sono chiare, a queste e solo a queste ci si deve attenere.
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(1) Cesare Glendi <<E intanto prosegue l'infinita "historia" dell'estinzione delle società cancellate dal Registro delle imprese (sul versante tributaristico, ma non solo)>> (in "GT - Rivista di giurisprudenza tributaria" n. 10 del 2015, pag. 767)
(2) La circolare n. 31/E del 30 dicembre 2014 così si esprime sulla questione : "trattandosi di norma procedurale, si ritiene che la stessa trova applicazione anche per attività di controllo fiscale riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal registro delle imprese o già cancellate dallo stesso registro prima della data di entrata in vigore del Decreto in commento".
(3) Prima le tre sentenze nn. 4060, 4061 e 4062, del 22 febbraio 2010, poi le tre sentenze nn. 6070, 6071 e 6072 emesse con la data del 12 marzo 2013.
(4) Sentenza n. 6072 del 12 marzo 2013 della Cassazione Civile, Sez. Unite - Pres. Preden Roberto - Est. Rordorf Renato.
(5) Corte di Cassazione, sezione Tributaria, Sentenza 31 gennaio 2017 n. 2444, Pres. Cappabianca, Rel. Iannello
(6) Corte di Cassazione, V Sezione, Sentenza 9672 depositata il 19 aprile 2018 (Pres. Bruschetta, Rel. Fuochi Tinarelli)
(7) Corte di Cassazione, sezione Tributaria, Sentenza 7 aprile 2017 n. 9094, Pres. Bielli, Rel. Perrino