Con l’articolo 12 del D. lgs. 147/2015 (c.d. decreto internazionalizzazione), il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento l’articolo 166-bis Tuir rubricato “Trasferimento della residenza nel territorio dello Stato”, che individua i criteri in base ai quali valorizzare, ai fini fiscali, i beni provenienti dall’estero che entrano per la prima volta nell’ordinamento tributario italiano in regime di impresa.
La suddetta norma colma finalmente una lacuna nell’ordinamento interno in quanto, in passato non era previsto alcun criterio specifico per la valorizzazione dei beni dei soggetti che si trasferivano in Italia.
Ed infatti, prima dell’introduzione della citata norma e nel silenzio del legislatore, si applicava il principio generale individuato dall’amministrazione finanziaria nella risoluzione del 5 agosto 2008, n. 345/E (ancora valido per le 4 annualità precedenti al 2015), in base al quale veniva riconosciuto il valore corrente degli asset quando lo Stato di provenienza assoggettava a tassazione in via ordinaria i maggiori valori ivi formatesi; in caso contrario, si faceva riferimento al costo storico posto alla base degli ordinari principi di determinazione del reddito d'impresa.
Orbene, il nuovo regime prevede invece che i soggetti esteri che trasferiscono la propria residenza in Italia, ai fini delle imposte sui redditi, assumano quale valore fiscale delle attività e passività il valore normale delle stesse.
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Più precisamente, il comma 1 del nuovo articolo 166-bis del T.u.i.r., dispone il riconoscimento fiscale del valore normale delle attività e delle passività della società che trasferisce la propria residenza nel territorio dello Stato da “determinarsi ai sensi dell’art. 9”.
Tale valore, viene riconosciuto a prescindere dall’applicazione di una exit tax da parte dello Stato estero di provenienza, come confermato dalla Relazione Illustrativa al Decreto Internazionalizzazione, e alla sola condizione che lo Stato di origine consenta un adeguato scambio di informazioni e sia uno stato incluso nella white list di cui all’art. 11, comma 4, lett. C) del D. Lgs. n. 239/1996.
Di converso, il comma 2 dell’art. 166-bis stabilisce che, nel caso in cui il trasferimento della residenza abbia luogo da uno Stato o territorio diverso da quelli inclusi nella white list (e quindi stati che non garantiscono un adeguato scambio di informazioni), il riconoscimento del valore normale non è automatico ma è subordinato al raggiungimento, con l’Agenzia delle Entrate, di un preventivo accordo di ruling internazionale ai sensi di quanto disposto dall’art. 31-ter del Dpr 600/1973. In assenza di detto accordo, il “valore di ingresso” per le attività è pari al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale e, per le passività, al maggiore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale.
La ratio dell'articolo 166-bis è quindi quella di ripartire correttamente la potestà impositiva tra le giurisdizioni coinvolte nell'operazione di trasferimento, ed evitare che plusvalori e minusvalori maturati fuori dal reddito d'impresa italiano possano concorrere alla formazione dello stesso, permettendo così di eliminare quel “disincentivo all’entrata” che consisteva nella pretesa di tassare anche plusvalenze maturate nello stato di provenienza, rendendo lo stato italiano maggiormente attrattivo per le imprese.
Peraltro, nella Relazione illustrativa al Decreto Internazionalizzazione (con riferimento all’art. 12), è espressamente previsto che la disciplina di cui all’art. 166-bis “trova applicazione anche nei casi di esterovestizione”, vale a dire nei casi in cui una società risulta fiscalmente residente all’estero nonostante conduca sul territorio italiano la propria attività principale, ovvero abbia in Italia la sede delle propria amministrazione.
Tuttavia, il generico riferimento all’esterovestizione comporta una serie di problematiche: ed infatti, le società che al momento della costituzione sono effettivamente residenti all’estero e che vengono poi qualificate come esterovestite, possono essere sostanzialmente assimilate alle società che trasferiscono la propria residenza nel territorio dello Stato (sussistendo in sostanza le medesime problematiche di valorizzazione dei beni in ingresso); diversamente, nel caso in cui la società è considerata residente in Italia ab origine, non può essere assoggettata alle regole previste in caso di trasferimento di residenza, mancando la componente dinamica del passaggio dalla giurisdizione di uno Stato all’altro e, quindi, in tal caso dovrebbe trovare applicazione il regime ordinario di cui all’art. 110 T.U.I.R..
La prima risposta dell’Amministrazione finanziaria ai dubbi interpretativi sollevati dalla normativa in esame.
L’introduzione della nuova norma ha sollevato non pochi dubbi interpretativi che sono stati in parte affrontati dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione del 5 agosto 2016, n. 69/E, che ha fornito alcune indicazioni molto interessanti relative alla corretta applicazione dell’art. 166-bis T.U.I.R..
La fattispecie oggetto della Risoluzione riguarda un’operazione di fusione per incorporazione di una società “holding” fiscalmente residente in Lussemburgo in una società italiana che, tramite interpello, ha chiesto all’Agenzia delle Entrate chiarimenti in ordine all’applicabilità dell’art. 166-bis in caso di fusione.
Orbene, con il primo quesito, l’istante ha chiesto all’Amministrazione finanziaria se le società di capitali costituite in Stati membri dell’UE rientrino fra i soggetti che esercitano imprese commerciali cui fa riferimento l’art. 166-bis del TUIR, a prescindere dal tipo di attività esercitata.
In risposta a tale primo quesito, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il presupposto dell’”esercizio di un’impresa commerciale” deve intendersi riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa, secondo quanto disposto dall’ordinamento domestico, a prescindere dalla tipo di attività concretamente svolta nei medesimi.
Con il secondo quesito l’istante ha poi chiesto con quale modalità le attività e le passività della società potessero fare il loro ingresso nel sistema fiscale italiano e, in particolare, se la norma potesse essere applicata anche nel caso di trasferimento in Italia di una società tramite una fusione per incorporazione.
Orbene, in riferimento a tale quesito l’Amministrazione finanziaria, dopo aver precisato che l’art. 166-bis si limita a riferire il campo di applicazione al caso di “trasferimento della residenza nel territorio dello Stato” senza alcuna ulteriore precisazione, chiarisce che il Legislatore ha inteso regolare il trasferimento della residenza fiscale in Italia del soggetto estero sotto un approccio “sostanziale”, senza avere riguardo perciò alle modalità con cui il trasferimento avviene.
In altre parole, secondo l’Agenzia delle Entrate, la ratio della disposizione deve essere rinvenuta nella volontà di regolare in maniera omogenea i trasferimenti di residenza, indipendentemente dall’operazione prescelta per attuarli e, dunque, non solo con riferimento ai trasferimenti di residenza diretti, bensì anche alle operazioni straordinarie tramite le quali si realizza il medesimo risultato, come nel caso di una fusione per incorporazione di un’impresa straniera con una società italiana.Infine, con il terzo quesito la società che ha proposto interpello chiede se il valore normale ex art. 9 del T.U.I.R. assuma piena rilevanza anche per quelle attività e passività che, ad esito della fusione, non risultino iscritte in bilancio in quanto completamente ammortizzate o il cui valore contabile inferiore al fair value.
In riferimento a tale ultimo quesito, l’Agenzia delle Entrate risponde affermativamente chiarendo che il “valore normale” può essere riconosciuto anche ai beni della società incorporata che non sono più presenti in bilancio in quanto completamente ammortizzati, o il cui valore contabile sia inferiore al fair value.
Il conseguente riconoscimento di una maggiore quota di ammortamento fiscale, rispetto a quella risultante in contabilità, seguirà quanto disposto dall’art. 109, comma 4, lett. b) del TUIR, che prevede la deduzione dei componenti negativi che pur non essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizioni di legge.
In conclusione, l’Amministrazione finanziaria chiarisce che la disciplina in esame non può prescindere dal rispetto dei principi generali sulla determinazione del reddito d’impresa e, tra questi, l’inerenza e l’effettivo sostenimento dei costi: dunque, potrà essere riconosciuto esclusivamente il valore normale – e la deducibilità delle relative quote di ammortamento – dei singoli beni che l’impresa ha acquisito sopportando un onere effettivo nel Paese di provenienza, anche se tale valore normale risulta superiore al costo dei medesimi asset.