In tema di società a ristretta base sociale, l’accertamento negativo, con sentenza passata in giudicato, dell’utile extracontabile della società rimuove il presupposto da cui dipende l’accertamento del maggior utile da partecipazione del socio; specie se la sentenza che ha annullato l’accertamento emesso nei confronti della società sia una sentenza nel merito e non di mero rito. A chiarirlo la Suprema Corte con sentenza 24793, pubblicata il 4 dicembre scorso.
IL CASO
Il contenzioso ha origine da un avviso di accertamento per IRPEF 1995, con cui l’Agenzia delle Entrate aveva ripreso a tassazione i redditi da partecipazione di un contribuente, quale socio di una società a responsabilità limitata, a propria volta destinataria di un avviso di accertamento per l'anno 1995, dalla stessa impugnato davanti alla giustizia tributaria. La Commissione Tributaria Regionale del Lazio - adita in sede di rinvio della Corte di cassazione - ha rigettato l'appello dell'Ufficio avverso la sentenza di primo grado che aveva annullato, per nullità insanabile della relativa notifica, il predetto atto.
Il giudizio approdava innanzi alla Suprema Corte su ricorso dell’Amministrazione. In particolare, l’Agenzia delle Entrate sosteneva che il presupposto della pretesa nei confronti del socio non era la formazione di un accertamento definitivo nei confronti della società, ma il fatto storico dell’esistenza di redditi della società non dichiarati; sicché l’accertamento nei confronti della società potrebbe vincolare quello nei confronti del socio solo quando la pretesa nei confronti della società sia ritenuta inesistente nel merito e non, come nella specie, per un vizio procedurale.
Infatti, nel caso di specie, il ricorso per cassazione contro la sentenza della CTR favorevole alla società era stato dichiarato inammissibile per mancato deposito dell’avviso di ricevimento della relativa notifica per posta.
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Per approfondire la tematica, scarica il Commento completo con il testo integrale della sentenza: "Stop all’accertamento dei soci se quello della società è venuto meno - Cass. 24793-2015"
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l problema della validità della presunzione di automatica attribuzione, ai soci, di utili extracontabili conseguiti da società di capitali a ristretta base azionaria o familiare non è affatto questione recente.
La questione va in primo luogo affrontata, preliminarmente, sul piano normativo.
Mentre, per legge, , per le società di persone vige il c.d. "principio di trasparenza" - secondo il quale i redditi delle stesse sono imputati a ciascun socio nell'anno di produzione, indipendentemente dalla percezione e proporzionalmente alla propria quota di partecipazione agli utili - analoga norma tributaria non è prevista per le società di capitali, i cui dividendi costituiscono reddito, per i soci, solo nel periodo di imposta in cui sono effettivamente percepiti. Le società di persone non possiedono, dunque, una propria soggettività fiscale ai fini delle imposte sui redditi.
Le società di capitali, invece, anche in virtù della loro autonomia giuridica e patrimoniale, sono incise da un'apposita imposta sui redditi, l'Ires, e la loro posizione tributaria è totalmente separata da quella dei soci. In linea di principio, dunque, un accertamento tributario in capo alla società non dovrebbe avere conseguenze dirette anche nei confronti dei singoli soci.
Tuttavia, secondo un consolidato orientamento della Corte di cassazione, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Cass. 5607/2011; v, tra le tante, anche Cass. 18640/2008 e 17358/2009; Ordinanza n. 17359 del 30 luglio 2014); siffatta presunzione non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass. n. 951/2009; v. anche Cass. 5607/2011).
In particolare, nella sentenza della Sez. tributaria della Suprema Corte del 3 aprile 2000, n. 3981 è stato affermato che "nel caso di società di capitali, pur non sussistendo - a differenza delle società di persone - una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, viene generalmente ammesso che l'appartenenza della società ad una stretta cerchia familiare possa fornire, sul piano degli indizi, la prova dell'avvenuta distribuzione. La correttezza logico-giuridica di tale criterio d'imputazione ai soci degli utili extracontabili di una società di capitali è stata ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte, sulla considerazione della 'complicità' che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale".(cfr. Cass. sentenza n. 16885 del 2003 ). In pratica, la presunzione di distribuzione si fonda sulla ristrettezza della base sociale che, normalmente, è indice di un vincolo di solidarietà e reciproco controllo dei soci, andando in tal modo a caratterizzare e influire sulla gestione sociale e rendendo tali sodalizi differenti rispetto a quelli in cui l'azionariato risulta diffuso. Di certo, non esiste una definizione giuridica di società a base familiare, né di società a ristretta base sociale. Il giudizio di merito deve essere lasciato al libero apprezzamento dell'Ufficio prima e, eventualmente, al giudice poi. È, infatti, da valutare caso per caso se i rapporti che legano i soci possano fare verosimilmente pensare ad una complicità fra gli stessi, tale da far presupporre un accordo occulto per la ripartizione dei maggiori utili prodotti.
Non è, quindi, possibile individuare a priori un limite massimo di soci oltre il quale non è più possibile servirsi della presunzione di legittimità. Le pronunce della Cassazione sono, sul punto, alquanto eterogenee e non potrebbe essere altrimenti. La sent. n. 3254/2000), ad esempio, considera a ristretta base azionaria, con organizzazione aziendale prevalentemente familiare, una società formata da padre (socio e legale rappresentante), madre (socia) e tre figli (soci). Per la dec. n. 24491/2006, invece, lo è una società con quattro soci, in cui quello investito da avviso di accertamento per redditi di capitale non dichiarati aveva una partecipazione del 25%.
Con la sent. n. 7492/2002, la Suprema Corte ha, invece, ritenuto applicabile la presunzione di distribuzione ad una società con cinque soci, di cui tre titolari per il 25% e due, tra cui il ricorrente, per il 12,5%(la società, in tal caso, è stata considerata a base parzialmente societaria stante il rapporto di fratellanza fra i due soci minoritari).