Il costante ampliamento del catalogo dei reati presupposto contenuti nel d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 e una prassi giudiziale particolarmente severa suggeriscono alle imprese l’adozione di modelli di organizzazione gestione idonei a prevenire i reati che possono essere commessi nell’esercizio dell’attività produttiva.
Lungo questo cammino i professionisti, chiamati con il management dell’impresa a costruire e ad attivare un sistema di regole preordinato a prevenire i reati indicati nel d.lgs. n. 231/2001, si trovano ad affrontare numerose problematiche. Fra queste va iscritta la difficile convivenza dei delitti colposi con il paradigma di illecito dell’ente disegnato dal legislatore, che ha occasionato un interessante dibattito giuridico in dottrina e giurisprudenza con ricadute, ricche di implicazioni, nel mondo dell’operatività.
L'articolo continua dopo la pubblicità
Autori: Russo avv.to Yuri e Giovannone Dott.ssa Maria
In Italia, i primi studi da parte della dottrina penalistica moderna preordinati a sfatare il dogma secondo il quale le persone giuridiche, ma anche gli altri enti protagonisti della realtà economica, sebbene privi di personalità giuridica, non possono commettere reati ed essere sanzionate, sono da collocare alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
Sotto l’influenza dell’ordinamento tedesco che ha spesso esercitato un forte ascendente sulla dottrina e sulle opzioni di politica penale nel nostro Paese, un timido passo in questa direzione è stato compiuto dal legislatore nazionale con quella che fino a oggi la più importante legge di depenalizzazione approvata nel sistema normativo italiano: l. 24 novembre 1981, n. 689. In quella occasione, mediante la modifica apportata all’art. 197 c.p., trovò per la prima volta traduzione normativa il collegamento funzionalistico tra la persona fisica autrice del reato e l’ente al quale la prima era legata da un rapporto qualificato. Nondimeno, il dettato normativo, ancora in vigore, sebbene scarsamente applicato, non introduce una autonoma forma di responsabilità per il soggetto metaindividuale, che inoltre deve essere dotato di personalità giuridica, ma si limita a far sorgere in capo a questo, in caso di insolvibilità del condannato, una obbligazione di natura civilistica consistente nel pagamento di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta.
Alla sempre più incalzante necessità di sistematizzare una diretta ed autonoma responsabilità penale degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio da soggetti aventi un nesso funzionale con questi, si contrapponeva la considerazione che il sistema penale italiano e le disposizioni costituzionali dirette a sancire irrinunciabili garanzie in tale ambito di disciplina avevano di mira una persona fisica.
Nonostante il perdurare delle perplessità, soprattutto di ordine costituzionale, rispetto alla opportunità di una responsabilità da reato delle persone giuridiche, il legislatore, nel 2001, in attuazione della l. delega n. 300 del 29 settembre 2000, ha rotto gli indugi introducendo con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.
L’opinione prevalente in dottrina è che il decreto costituisca il portato degli impegni assunti dal nostro Paese a livello internazionale e comunitario. Inoltre, hanno indubbiamente orientato verso questa opzione sanzionatoria le suggestioni provenienti da altri Paesi di civil law geograficamente contigui all’Italia, ad esempio la Francia.
Alcune opinioni sapienziali, tuttavia, ritengono che la punibilità degli enti sia frutto di un’autonoma scelta di politica criminale del legislatore italiano sospinta da alcune frange dell’ambiente scientifico e politico che hanno altresì influenzato in tal senso i progetti di riforma della parte generale del codice penale coevi alla legge delega del Duemila.
In prima approssimazione, è corretto affermare che il sistema sanzionatorio delineato nel d.lgs. 231/2001 appartiene alla famiglia degli illeciti di diritto pubblico al pari di quello fondato sulla responsabilità penale e amministrativa della persona fisica per fatti giuridici aventi rilevanza giuridica penale ovvero amministrativa.
I tratti comuni si individuano ad esempio nella condivisione di un insieme di regole di validità primigeniamente ad appannaggio esclusivo del sistema penale italiano e, poi, mutuate, dal legislatore del 1981, dalla parte generale del codice Rocco per essere collocate nei primi articoli della l. 24 novembre 1981, n. 689, il più importante provvedimento di depenalizzazione ad oggi approvato nel nostro Paese, e da quello del 2001 per definire i limiti di applicabilità del complesso di disposizioni contenute nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 deputate a disciplinare la responsabilità delle persone morali.
Parimenti i tre sistemi sanzionatori sono connotati da elementi generali di fattispecie e di sanzione che, pur modulandosi in termini parzialmente diversi dal punto di vista fenomenologico condividono, quanto ai primi, l’aspirazione ad attribuire il fatto giuridico illecito al suo artefice nel perimetro della responsabilità personale, quanto ai secondi, la matrice dell’afflittività e della dissuasività dal tenere il comportamento deviante.
La novità più dirompente contenuta nel d.lgs. 231/2001 è rappresentata dallo schema responsabilitario capace di impegnare, per la prima volta nel nostro ordinamento, la responsabilità dell’ente in via autonoma e diretta.
Gli elementi generali di fattispecie coessenziali all’integrazione dell’illecito dell’ente dipendente da reato sono la consumazione o il tentativo, ove ammesso, di un fatto di reato c.d. presupposto, vale a dire previsto nell’elenco tassativo di fattispecie richiamate negli articoli da 24 a 25 duodecies; la circostanza che la persona fisica autrice del fatto presenti un collegamento di diritto o di fatto con l’ente e che agisca nell’interesse o vantaggio di questo; l’assenza o l’inadeguatezza di presidi organizzativi attivati dall’ente in ottica di prevenzione dei reati presupposto, formalizzati in documenti ad hoc, i c.d. modelli di organizzazione e gestione.
La sussistenza di questi elementi determina la risposta sanzionatoria statuale che, in termini sintetici, si articola come segue.
Le sanzioni amministrative pecuniarie seguono un meccanismo bifasico per quote (art. 10), in cui la pena finale costituisce la risultante di un moltiplicazione fra un numero di quote scelto all’interno di limiti edittali predefiniti dal legislatore per ciascun reato, moltiplicato per il valore di ciascuna quota discrezionalmente stabilita dal giudice all’interno di un range legalmente definito. Si deve precisare che la responsabilità dell’ente per il pagamento della sanzione pecuniaria è limitata al suo patrimonio o al fondo comune.
Le sanzioni interdittive, pur appartenendo alla categoria delle pene principali, sono applicabili soltanto nei casi in cui l’ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità ovvero il reato commesso dal sottoposto sia stato determinato o agevolato da gravi carenze organizzative o, infine, in caso di reiterazione degli illeciti (art. 13). Completano il quadro sanzionatorio la misura ablativa della confisca e quella infamante della pubblicazione della sentenza di condanna.