Tale pronuncia non è isolata ma s'innesta nell'ambito dell'orientamento della Suprema Corte in forza del quale l'attività della Pubblica Amministrazione (di seguito solo P.A.), anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti della legge e dal principio primario del " neminem laedere " di cui all'art. 2043 c.c. ragion per cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa P.A., un comportamento doloso o colposo, che, in violazione della norma e del principio indicati, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo (Cass. Civ. n. 698 del 19.01.2010, n. 5120 del 3.03.2011 e n. 21963 del 24.10.2011).
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Per quanto riguarda i fatti di causa, il contribuente aveva domandato i danni causati dall'operato della P.A., che prima aveva richiesto un tributo non dovuto e poi aveva provveduto con ritardo, a dire del contribuente, allo sgravio. Il Tribunale aveva osservato che dagli atti non emergeva che la P.A. fosse a piena conoscenza della situazione patrimoniale del contribuente e che solo successivamente il contribuente aveva offerto documentazione che aveva consentito alla P.A. di accertare una situazione diversa da quella originariamente ipotizzata e, quindi, idonea a riconoscere lo sgravio.
La Cassazione ha rilevato che l'Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell'adottare l'atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione. Non è sufficiente, infatti, l'obiettiva illegittimità della pretesa tributaria, ma occorre che tale illegittimità sia connotata da un quid pluris , che viene identificato nella violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
In proposito, il Giudice di Legittimità ha ricordato che la medesima terza sezione (sentenza n. 22508 del 2011) aveva avuto già modo di affermare che, in tema di responsabilità civile della P.A., l'ingiustizia del danno non può considerarsi in " re ipsa " nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo, invece, il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se:
Inoltre, secondo la Cassazione l'obbligo per la P.A. di agire nel rispetto delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione impongono anche l'adozione di determinati comportamenti.
In primo luogo, la P.A., una volta informata dell'errore in cui è incorsa, deve compiere le necessarie verifiche e poi, accertato l'errore, annullare il provvedimento riconosciuto illegittimo o, comunque, errato. Non vi è, dunque, spazio alla mera discrezionalità poiché essa verrebbe necessariamente a sconfinare nell'arbitrio, in palese contrasto con l'imparzialità, correttezza e buona amministrazione che sempre debbono informare l'attività dei funzionari pubblici. Questo principio vale anche allorché il contribuente abbia lasciato scadere il termine utile per impugnare il provvedimento avanti alla Commissione Tributaria, giudice competente ad accertarne l'illegittimità e, quindi, sia stato costretto ad affidarsi all'autotutela della P.A..
In secondo luogo, il diritto del contribuente deve essere riconosciuto in tempi ragionevoli, anche quando non sia previsto uno specifico termine per l'adempimento. Spetta, dunque, al giudice di merito stabilire, volta per volta e considerando la situazione concreta (ad esempio: il numero di "pratiche" cui l'ufficio deve far fronte, la loro trattazione in ordine cronologico, il grado di complessità dell'accertamento, ecc.) se il tempo impiegato dalla P.A. sia o meno rispettoso delle regole indicate.
Quanto al danno subito dal contribuente e consistente nelle spese per la difesa (assistenza del commercialista), la risarcibilità di tali spese non può essere aprioristicamente esclusa ma occorre pur sempre un comportamento della P.A. censurabile sotto gli indicati profili.
La questione non si pone tutte le volte in cui il contribuente abbia proposto ricorso avanti alla Commissione Tributaria, poiché sarà quel giudice a stabilire se e in quale misura le spese sostenute debbano essere rimborsate.
Essa si presenta quando il contribuente, anziché ricorrere in sede giurisdizionale, si sia affidato all'autotutela da parte della P.A.. La soluzione discende dai principi sopra ribaditi. La condanna della P.A. non può essere pronunciata sulla base della allegazione della mera illegittimità dell'atto, ma presuppone che sia accertata la violazione delle ripetutamente richiamate regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. La relativa valutazione non può che essere demandata al giudice di merito, il quale decide applicando i principi in tema di onere probatorio posti dall'art. 2697 c.c..
Quindi, se invoca l'art. 2043 c.c. per lamentare il ritardo con cui la P.A. ha esercitato l'autotutela, il contribuente, una volta che sia stata negata l'ingiustizia del provvedimento poi annullato, deve dimostrare il danno che tale ritardo gli ha cagionato e che invece non si sarebbe verificato ove il provvedimento della P.A. fosse stato tempestivo.
La sentenza n. 698 del 19 gennaio 2010
Il Giudice di Pace aveva accolto la richiesta di risarcimento danni del contribuente, condannando l'Agenzia delle Entrate al pagamento di Euro 705,40 per danni consistenti nelle spese legali sostenute per proporre ricorso davanti alla Commissione Tributaria contro l'atto illegittimo poi annullato in autotutela.
La Cassazione nel respingere il ricorso dell'Agenzia delle Entrate ha specificato che nel caso in questione il danno di cui si chiedeva il risarcimento in realtà derivava dal compimento dell'atto illegittimo e l'intervento in autotutela sarebbe stato solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti. Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile.
La sentenza n. 5120 del 3 marzo 2011
Il Giudice di Pace aveva accolto la domanda del contribuente, condannando l'Agenzia delle Entrate al risarcimento di del danno pari ad Euro 894,90, danno consistente nelle spese sostenute dallo stesso per il commercialista e per le varie trasferte verso l'ufficio della P.A., nonché le spese accessorie e consequenziali sostenute per conferire con la P.A..
Nel respinge il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, la Cassazione ha rilevato che il comportamento di quest'ultima ha violato il principio del “ neminem laedere ” di cui all'art. 2043 c.c. poiché nonostante le diffide del contribuente non ha mai provveduto a verificare quanto dall'attore lamentato ma solo a seguito di ulteriori sollecitazioni da parte del commercialista dell'attore, ha ammesso l'errore commesso, provvedendo all'annullamento delle somma richieste. Il comportamento tenuto dalla P.A., violando le più comuni regole di prudenza e di diligenza, ha causato un danno economico al contribuente, che non può che essere risarcito.
La sentenza n. 21963 del 24 ottobre 2011
Il Giudice di Pace aveva accolto la domanda del contribuente, condannando l'Agenzia delle Entrate al risarcimento dei danni pari ad Euro 547,88, danni consistenti nell' onorario del proprio commercialista.
La Cassazione ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate affermando che la doglianza non coglie la ratio decidendi espressa nel provvedimento impugnato, che non ha collegato la statuita responsabilità dell'Agenzia al ritardo nella rimozione dell'atto impositivo, bensì alla emissione di tale atto illegittimo, dalla quale è derivato il danno accertato.