In primo luogo parliamo del significato dei metodi di finanziamento delle pensioni.
Il ragionamento è di una semplicità elementare. Abbiamo a disposizione una somma di denaro. Se la spendiamo subito non resta nulla (salvo i beni di consumo eventualmente acquistati). Se, al contrario, investiamo le nostre risorse, con accortezza e professionalità, possiamo sperare di incrementarne il valore iniziale, conformemente ai rendimenti realizzati.
Nel frattempo, il gruzzolo ha “viaggiato” nell’economia reale, ha prodotto ricchezza, sviluppo e lavoro.
Attraverso un immaginario, grande pantografo possiamo trasferire l’esempio agli imponenti meccanismi dei sistemi pensionistici e spiegare, così, gli effetti dei metodi di finanziamento.
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Con la ripartizione, si impiegano gli apporti dei lavoratori attivi per pagare le pensioni vigenti, mediante una catena di sant’Antonio di cui lo Stato è garante e che inanella, nel tempo, le diverse generazioni, inducendole a un comportamento forzosamente solidale.
Con la capitalizzazione, invece, ognuno è padrone del proprio destino pensionistico: la sua prestazione, al momento dell’uscita dal mercato del lavoro, sarà determinata dal montante accantonato e dai relativi interessi.
Nella ripartizione sono, dunque, altri (gli attivi) a sostenere l’onere della solidarietà; nella capitalizzazione ognuno pensa per sé, ma il suo risparmio previdenziale per lunghi decenni è al servizio del bene collettivo.
E cresce progressivamente di valore.
Naturalmente, i casi di scuola non sono sempre applicabili alla vita reale. Quasi tutti i grandi sistemi obbligatori, al momento in cui furono istituiti o successivamente, trovarono conveniente organizzarsi secondo il metodo della ripartizione.
Alle “riforme” pensarono i Governi e i Parlamenti. Ai tempi d’oro della previdenza obbligatoria, gli andamenti demografici (molti attivi e pochi pensionati; molti giovani e pochi anziani), l’organizzazione del mercato del lavoro e i tassi di crescita economica erano tutte lance spezzate a favore della ripartizione, anche perché essa consentiva di distribuire veri e propri “dividendi” – politicamente premianti – alle generazioni vicine ad andare in pensione, ma prive di percorsi contributivi del tutto lineari. Si pensi agli effetti della completa introduzione del calcolo retributivo (la pensione è ragguagliata alle medie reddituali degli ultimi anni di servizio) avvenuta alla fine degli anni Sessanta per i lavoratori dipendenti e nel 1990 per quelli autonomi.
Dai sistemi a ripartizione non si esce facilmente, se non a costo di imporre alle generazioni future il duplice onere di sostenere per decenni le pensioni in essere e accantonare contemporaneamente ulteriori risorse per organizzare il proprio destino da pensionati.
Il problema, allora, è quello di impostare, con equilibrio, un sistema misto, rivolto, quanto meno, a ripartire il rischio e a operare sia sul piano della finanza pubblica, sia su quello dei mercati finanziari. Una sinergia virtuosa, dunque. La quota pubblica della pensione riuscirebbe ad alleggerire il proprio impegno, in vista della crescente “crisi fiscale” degli Stati e dei rivolgimenti nella struttura sociale sottostante.
Quella privata potrebbe contare su di una garanzia di base, utile a misurarsi con “gli spiriti animali” del mercato. È da un mix virtuoso ed efficiente tra questi due sistemi che può realizzarsi una risposta di contenuto strategico alla crisi del modello sociale tradizionale e di conseguenza alle sue istituzioni.
Ma, nel caso Italia, il pilastro obbligatorio è destinato a svolgere un ruolo del tutto prevalente. Ecco perché è importante garantire equilibrio finanziario e sostenibilità economica ai sistemi pensionistici pubblici. È in questo quadro di compatibilità che vanno inquadrate le norme di cui i regimi previdenziali sono ricchi oltre misura.