Il costo della previdenza è sempre in aumento. Negli anni settanta bastava un’aliquota inferiore al 20% per coprire tutte le prestazioni erogate dall’Inps - non solo le pensioni dunque. Oggi, nel caso del lavoro dipendente, occorre il 33% per le sole pensioni, senza per altro poter assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite, per realizzare il quale occorrono imponenti trasferimenti dal bilancio statale nonché storni di risorse dalle poche gestioni attive - quella dei lavoratori parasubordinati e quella delle prestazioni temporanee .
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Il rapporto intercorrente tra lavoro e pensioni (e più in generale tra lavoro e modello di protezione sociale) è talmente evidente che non merita particolari considerazioni.
Nei paesi sviluppati, ovunque il sistema pensionistico sia fondato sul criterio della ripartizione (quando gli attivi finanziano le pensioni in essere, confidando che ci saranno altri lavoratori che pagheranno, grazie ad un patto intergenerazionale garantito dallo Stato, le loro pensioni, quando verrà il loro turno) sono in atto ampi processi di crisi, dal momento che, in seguito ai trend demografici, il numero degli occupati diminuisce ed aumenta quello degli anziani, i quali, per altro, vivono più a lungo.
Sia chiaro: il finanziamento a capitalizzazione (i versamenti di ciascun lavoratore e i relativi rendimenti capitalizzati forniscono il montante su cui viene calcolata la pensione) non è la panacea di tutti i mali.
Le conseguenze delle trasformazioni demografiche, economiche ed occupazionali hanno agito pesantemente anche sugli assetti dei fondi pensione a prestazione definita (quelli tenuti a garantire agli iscritti una prestazione prestabilita rapportata al reddito).
Nell’Europa continentale i sistemi pensionistici obbligatori, generalmente a ripartizione, sono strettamente connessi agli assetti complessivi della finanza pubblica. Dalle trasformazioni demografiche, economiche ed occupazionali derivano non solo rischi di insostenibilità dei modelli previdenziali, a danno dei futuri pensionati, ma anche ostacoli all’ingresso nel mercato del lavoro della manodopera più giovane, tenuta a contribuire e ad assicurare – sempre nella logica della ripartizione – i flussi finanziari occorrenti al pagamento dei trattamenti in essere con quote crescenti del proprio reddito.
L’elevato costo del lavoro, di cui gli oneri pensionistici sono tanta parte, si erge, infatti, come una barriera in più per la nuova occupazione e favorisce la ricerca di rapporti di lavoro meno onerosi, spesso al confine della precarietà.
Negli anni settanta bastava un’aliquota inferiore al 20% per coprire tutte le prestazioni erogate dall’Inps (non solo le pensioni dunque). Oggi, nel caso del lavoro dipendente, occorre il 33% per le sole pensioni, senza per altro poter assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite, per realizzare il quale occorrono imponenti trasferimenti dal bilancio statale nonché storni di risorse dalle poche gestioni attive (quella dei lavoratori parasubordinati e quella delle prestazioni temporanee).
Già nel 1993 il famoso Rapporto di Jacques Delors notava che “il livello elevato degli oneri sociali si pone come ostacolo all’occupazione ed esercita un effetto dissuasivo, incoraggiando la sostituzione del capitale al lavoro e favorendo l’economia parallela, incidendo particolarmente sull’occupazione delle piccole e medie industrie e, infine, incentivando la delocalizzazione degli investimenti e delle attività”.
La questione tuttora irrisolta – nonostante le importanti riforme realizzate in Italia ed in Europa negli ultimi anni – riguarda l’età pensionabile.
È questo il più importante parametro da modificare per adeguare i sistemi pensionistici ai nuovi scenari demografici. Si pensi che Lord Beveridge scrisse il suo celebre rapporto – destinato a diventare la pietra miliare del welfare state all’europea – all’inizio degli anni ’40, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. In quella sede indicò come età minima (l’aggettivo fu a lungo sottolineato) per il pensionamento i 65 anni per gli uomini e i 60 per le donne.
Oltre sessant’anni dopo, in Italia, come per altro in Europa, l’età media del pensionamento effettivo è adesso pari a circa 60 anni (tutti i paesi hanno più o meno delle uscite di sicurezza anche se non vistose come le nostre).
Pur in presenza dei progressi della medicina e delle migliori condizioni di lavoro e di vita, che consentono di vivere meglio e più a lungo, oggi si va in pensione ad un’età in generale più bassa di quella degli anni ’60 e ’80. Così, la Ue vive con grande preoccupazione la crisi strutturale dei sistemi pensionistici, con la duplice preoccupazione di assicurare stabilmente la sostenibilità finanziaria dei sistemi e l’adeguatezza dei trattamenti nonché la corretta alimentazione del mercato del lavoro.
Non a caso Lisbona 2000 (il vertice che lanciò l’obiettivo dell’ “economia della conoscenza”) ha proposto agli Stati di realizzare, entro il 2010, un tasso di attività medio del 70%, indicando nel segmento del lavoro delle donne e di quello degli anziani (da 55 a 64 anni) i terreni principali d’intervento.
Le decisioni di Barcellona 2002 (poi sempre ribadite in seguito) hanno coerentemente affiancato i target occupazionali con l’indicazione di realizzare, sempre entro il 2010, un prolungamento, in media, di almeno 5 anni dell’età effettiva di pensionamento. Un obiettivo questo che il nostro Paese non conseguirà per effetto anche di misure contraddittorie intervenute negli ultimi anni proprio con riguardo alla questione dell’età pensionabile (si pensi a tutto il dibattito sul tema del c.d. scalone sfociato, con la legge n. 247/2007 in una revisione più gradualistica dell’innalzamento del requisito anagrafico del trattamento di anzianità).